Il PCI nella storia d’Italia e dell’Umbria
di Alberto Provantini
Il PCI nasce nel pieno inverno del 1921 e si scioglie nel pieno inverno del 1991. Novanta anni fa, il 21 gennaio, a Livorno, viene fondato il PCI, dai “comunisti puri”che abbandonano, come mozione di minoranza, il 17° congresso del PSI e vanno al teatro S. Marco a costituire il nuovo Partito. Il PCI si scioglie dopo 70 anni di vita intensa, protagonista della storia d’Italia, al suo XX congresso, che si tiene a Rimini a fine Gennaio di 20 anni fa. Il PCI non nasce dal nulla, ma dal PSI, che aveva già una storia e continuerà ad averla per quasi tutto il secolo scorso. Il PCI non finisce nel nulla ma da vita al PDS, nel quale non entra una minoranza, che a sua volta da vita a Rifondazione Comunista. Un Partito che non c’è più da ventanni. Che ha avuto un ruolo importante, nella lotta clandestina durante il ventennio fascista e poi in quel mezzo secolo che va dalla Resistenza alla Liberazione, dalla dittatura alla libertà, dalla monarchia alla Repubblica, dalla guerra alla pace, dalla ricostruzione post-bellica alla costruzione della democrazia nell’Italia repubblicana, scrivendo ed approvando la Costituzione, governando per un breve periodo l’Italia, amministrando per decenni città e province, e dal 1970 governando alcune Regioni, a cominciare dall’Umbria. Quest’anno sono cominciate le celebrazioni del 90° del PCI. Dentro le celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia. Perché la storia del PCI va letta dentro la storia d’Italia. La riflessione critica sulla storia del PCI va fatta nella riflessione sulla storia d’Italia. In essa va fatta la riflessione sulla storia del PCI in Umbria. Che è tanta parte della storia della nostra Regione. “La storia di un Partito è storia del suo paese, da un punto di vista monografico” scriveva Gramsci. E Togliatti alla Costituente dichiarava: “i partiti sono la Democrazia che si organizza”. La storia del PCI non è solo quella di una classe dirigente, che ha espresso una cultura politica, che ha governato e concorso a cambiare il nostro paese, ma è storia di masse, di milioni di donne ed uomini, che si sono organizzate nel Partito, che con il Partito hanno condotto lotte, si sono emancipati, hanno subito sconfitte, sofferto angherie ed ingiustizie, ottenuto progressi, realizzato sogni, conquistato riforme. Il PCI è stato un grande partito nazionale ma è stato allo stesso tempo parte integrante della storia del comunismo internazionale. Le sue vicende vanno lette con le due lenti degli occhiali: quella internazionale e quella nazionale. Entrambe ne condizionano la nascita, la vita, l’opera, lo scioglimento. Il PCI nasce dopo il successo della “rivoluzione d’ottobre”, quando i bolscevichi, guidati da Lenin, conquistano il potere in Russia nel 17. Nasce dopo la prima guerra mondiale. In un Europa attraversata dai grandi movimenti operai e contadini. Nasce dopo il 19 della costituzione della Internazionale Comunista, alla quale aderisce. Mentre le speranze erano di “fare come la Russia”, ed in Italia, da una parte c’erano le grandi lotte con mezzo milione di operai metallurgici che occupavano le fabbriche, con i socialisti che “avvertono i soldati e i contadini a tenersi pronti perché il giorno della libertà e giustizia è vicino” e dall’altra parte c’è la reazione fascista, col Re, che dopo la marcia su Roma del 22, nomina Mussolini a capo del Governo. Un PCI che nasce in quel grumo di vicende interne e internazionali. Un PCI che cambia, già dinnanzi alle leggi fasciste che mettono al bando i Partiti, che passa alla clandestinità, e che nel Congresso del 26 a Lione, “rinasce” con l’elezioni di Gramsci a segretario e un esecutivo con Togliatti, che dopo lo sbarco a Salerno annuncia nel ‘44 il “Partito nuovo”. Che cambia nel corso degli anni dell’Italia repubblicana e democratica, passando dai primi governi di unità nazionale alla lunga opposizione dal maggio 47 sino al 76, quando l’idea del “compromesso storico” di Berlinguer porta all’accordo con la DC di Moro, ai “governi di solidarietà internazionale”, sostenuti dal PCI. Le vicende interne ed internazionali sono alla base non solo della nascita e della vita del PCI, che nei blocchi contrapposti del mondo diviso in due porta ad escludere i comunisti dai governi dei paesi occidentali, ma si conclude quando in Europa viene abbattuto il muro di Berlino, crolla il sistema Sovietico, con l’URSS ed i paesi satelliti del Patto di Varsavia, ed in Italia finisce la storia della “prima repubblica”, e scompaiono tutti i Partiti del novecento: dalla DC al PSI. Il PCI che nelle elezioni europee del ’84 divenne il primo partito in Italia con il 33,3% dei voti, e che è stato il più grande partito comunista dell’occidente, non c’è più da venti anni: la sua storia è irripetibile, chiusa, ma ancora ha peso. Quella navigazione lunga settanta anni, dal Tirreno all’Adriatico, da Livorno a Rimini, è passata per il cuore delle nostre città. “Veniamo da lontano ed andiamo lontano” diceva, Togliatti. I suoi dirigenti sono stati nelle isole, al confino e nelle galere fasciste. Su 4671condannati dal Tribunale Speciale fascista nel 1926, l’80% era dei comunisti, ben 4 mila erano del PCI, che scontarono 23 mila anni di carcere. Tra questi Antonio Gramsci. I suoi dirigenti ed i militanti del PCI erano sulle montagne, nelle brigate dei Partigiani, nella lotta di Resistenza, sino alla Liberazione d’Italia, in quel 25 Aprile 45: erano nello scatto di quella foto, a Milano, con in testa i capi comunisti Longo, Amendola, Pajetta. Tra i 46 mila partigiani morti in battaglia e i 21 mila feriti, e tra le diecimila vittime di rappresaglie che colpiscono tutti, di tutti i Partiti antifascisti, la gran parte è fatta di comunisti: ad Alcide Cervi, a Reggio Emilio, assassinarono i suoi sette figli. Il PCI è il Partito più organizzato nella lotta antifascista e nella guerra di Liberazione. Nell’Italia liberata il PCI è nei Comitati di Liberazione Nazionale a ricostruire le città distrutte dalla guerra ed avviare la costruzione della democrazia. Nel CLN sono rappresentate tutte le forze antifasciste della Resistenza, dai comunisti ai democristiani, dai socialisti agli azionisti, dai repubblicani ai liberali. Quel gruppo dirigente che nel 26 viene eletto nel Congresso di Lione, con Gramsci segretario, Togliatti, Scoccimarro, Terracini, Camilla Ravera, che sarà condannato dal tribunale speciale, viene “disperso” per un ventennio, perdendo nel 37, la sua mente, la sua guida, Antonio Gramsci. Ma si ricompone dopo la Liberazione. Con Togliatti V. Presidente del Governo Bonomi già nel 44 e con Ministri del PCI nei successivi Governi presieduti da Ferruccio Parri nel 45 e dal DC Alcide De Gasperi nel 46: a Ministri ci sono proprio i condannati dal fascismo, da Togliatti a Scoccimarro a Gullo. Siamo ancora nella monarchia. La Repubblica si affermerà con il referendum del 2 giugno del 46. Ed in quel referendum ed in quel testa a testa di voti, certamente determinante è la scelta del PCI di votare per la Repubblica. I dirigenti del PCI sono nei primi governi di unità nazionale dopo la Liberazione. E sono nei primi governi della Repubblica Italiana. Sempre con De Gasperi Presidente, ci sono i Ministri comunisti: da Scoccimarro a Gullo a Emilio Sereni, sino al maggio 47. L’assemblea Costituente che scrive la Carta fondamentale, cioè la Costituzione, è presieduta da uno dei fondatori del PCI, da Umberto Terracini. E’ lui che firma la Carta Costituzionale, dopo essere stato per anni nel carcere fascista. Quel 47 che segna il massimo di unità, nella condivisione dei valori sanciti nella Carta Costituzionale, coi primi articoli firmati dai dirigenti della DC come Moro, Fanfani, La Pira e di comunisti come Amendola, Nilde Iotti, Laconi. E segna anche la fine di quella decisiva stagione della storia d’Italia fatta d’unità nella Resistenza, nella Liberazione, nella ricostruzione, nella Repubblica, nella Costituzione. E che segna, non solo l’unità della politica delle forze democratiche. Ma di Partiti che col Patto di Roma del 44, danno vita al Sindacato Unitario dei Lavoratori Italiani, la CGIL, firmato da Achille Grandi per la DC da Canevari per i socialisti e da Giuseppe Di Vittorio per il PCI, che sarà il comunista che dirigerà il più grande sindacato unitario. Finirà allora, dopo la primavera del 47, e poi con l’elezioni del 18 aprile del 1948 quella stagione di unità. Con la “guerra fredda”, con i patti che dividono l’Europa ed il mondo in blocchi contrapposti, ci sarà la divisione, che porta il PCI ad essere escluso dai governi del paese ed alla lunga opposizione. Quel quadriennio, 43-47segna i passaggi decisivi per la storia dell’Italia. E in quel crocevia della storia il PCI passa dalla clandestinità, dal carcere, ai Palazzi di Governo, dalla lotta armata della guerra di liberazione alla direzione della ricostruzione materiale e morale dell’Italia. E’ proprio in quegli anni, che nasce il “Partito Nuovo”, nell’Italia libera. Di un Partito nuovo che diventa una grande forza politica di massa. Avviene dopo la lunga notte della dittatura e della guerra. In quei mille giorni della bella primavera e delle grandi speranze. Nella quale si tornava a sperare. In pace, nella serenità, spesso nella felicità, si lavorava per ricostruire case e fabbriche, scuole ed ospedali. E si tornava a parlare, discutere, a organizzare la vita democratica. Il Partito organizzava i lavoratori, i cittadini, discuteva di ideali e cose concrete. Si ricostruivano nel ‘46 i Comuni, i primi centri della democrazia. Tanto nel Governo, che nell’Assemblea Costituente ci sono i dirigenti del PCI condannato al carcere; da Togliatti a Terracini, così come c’è Di Vittorio al Sindacato, e Dozza è il simbolo dei Sindaci dei nuovi Comuni, in questo caso il mitico Sindaco di Bologna. I lavoratori incontrano il PCI incontrando quei dirigenti comunisti, che si identificano fisicamente con la lotta per la libertà, per la pace, per la democrazia, ed allo stesso tempo quelli che nel Comune, nel Governo e nel sindacato si battono per dare “pane e lavoro”, una casa, ed una speranza. Subito dopo la liberazione, il PCI è una forza organizzata con l’adesione di un milione e 770 mila di iscritti nel 45, che sale a 2 milioni e 252 mila nel 47. Prima del fascismo, appena nato, il PCI nel 21 contava appena 42700 iscritti. Ed in quelle elezioni, del 21 raccolse solo 292 mila voti, eleggendo 15 deputati contro il milione e mezzo del PSI che elesse 123 deputati. Il PCI tuttavia, nonostante la massa di iscritti, ottenne solo il 18,9% alle elezioni per la Costituente del ‘46 risultando il 3° partito, dopo la DC che ebbe il 35% e i socialisti (PSIUP) che ebbero il 20,7%. La stagione di rottura dell’unità che c’era stata dalla resistenza alla Repubblica alla Costituzione si apre il 18 aprile 48. Nell’elezione del primo Parlamento della Repubblica, il Fronte Popolare, l’alleanza cioè tra PCI di Togliatti e il PSI di Nenni, viene sconfitto: “Garibaldi” ha perso, si dirà. Vince la DC di De Gasperi con il 48,5% dei voti. Anni duri per il PCI e la sinistra. Nell’Europa segnata dalla spaccatura non solo dei blocchi ideologici politici, della divisione tra est e ovest, ma coi patti militari, e l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, nel marzo del 49. E giunse persino la scomunica del Papa per i comunisti nel luglio del 49. Ci fu in quel 49 l’attentato a Togliatti. Il pericolo scongiurato di una guerra civile. Anni di forte tensione sociale e di aperto conflitto politico. Tra il 48 e il 52 ci furono 65 morti nelle manifestazioni di piazza. Anni non solo di repressione nelle manifestazioni ma di discriminazioni per i lavoratori comunisti nelle fabbriche. Nelle elezioni politiche nel 1953 non scatta la “legge truffa”, la DC ed i partiti centristi non raggiungono il quorum che avrebbe fatto scattare la maggioranza assoluta. Il Parlamento nega la fiducia all’8° governo De Gasperi. Si esaurisce la guida dell’uomo politico che a capo della DC, guida i governi di unità nazionale con comunisti e socialisti, poi quelli centristi della rottura con la sinistra, che governò gli anni difficili della ricostruzione dell’Italia. Sono gli anni del grande sostegno americano all’Italia: Piano Marshall. Sono gli anni della divisione del mondo e dell’Europa, divisa tra Patto Atlantico, sotto l’egemonia americana e Patto di Varsavia sotto quella sovietica. Gli anni in cui permane “il legame di ferro del PCI con l’URSS”. Nel 56 la svolta con l’8° Congresso del PCI. Quello in cui Togliatti indicò la “via italiana al socialismo”. In quel crocevia del ’56 tra i carri armati russi a Budapest e le navi anglo francesi a Suez, nel quale Krusciov, il nuovo capo dei comunisti sovietici, denunciò i crimini di Stalin. Che ebbe grandi effetti. Non solo all’esterno, ma all’interno del PCI. Dove le masse erano legate non solo al mito della Rivoluzione d’Ottobre di Lenin, ma all’armata Rossa di Stalin che era arrivata a Berlino, e con gli alleati anglo-americani aveva sconfitto il nazifascismo, vinto la seconda guerra mondiale. Masse che non conoscevano le posizioni critiche su Stalin espresse da Gramsci sin dalla fine degli anni venti o da uomini come Terracini. Un processo che Togliatti portò avanti fino alla morte, nel 64, con il “memoriale” di Yalta sulla “unità nella diversità”. Sino a quando nel 68 quel “legame di ferro” si spezzò: quando il PCI espresse duramente e nettamente l’opposizione all’invasione sovietica della Cecoslovacchia e il sostegno alla “Primavera di Praga” di Dubchek. Altro momento attraversato con tensioni non solo esterno ma interno al Partito. Ma è in quegli anni, quello del “miracolo economico”, delle prime riforme, da quella agraria a quella industriale, dalle partecipazioni statali alla nazionalizzazione dell’industria elettrica, negli anni in cui si fa il primo centrosinistra, con l’alleanza tra la DC e il PSI, in cui cambia la situazione non solo interna ma internazionale, con Kennedy alla Casa Bianca, con Papa Giovanni del Concilio con i nuovi movimenti che riprendono nel paese, sulle grandi questioni della pace, della Riforma dello Stato, dello sviluppo economico, della modernizzazione, che il PCI, che si voleva nell’angolo, diviene protagonista di una nuova stagione. Il PCI del “centralismo democratico” nel quale all’XI Congresso Ingrao pone il problema della discussione aperta, ove sia trasparente anche all’esterno il dissenso interno ed allo stesso pone il problema di un nuovo “modello di sviluppo”. Le scelte fondamentali venivano prese dalla Direzione del Comitato Centrale. Sulla proposta del segretario c’era una discussione, nei comitati regionali, delle federazioni provinciali, con gli iscritti nelle sezioni. Le decisioni impegnavano tutto il partito a realizzarlo unitariamente. Gli anni in cui il PCI si impegnò sul terreno programmatico e la costruzione delle alleanze tra forze sociali e forze politiche, seguendo l’ ispirazione gramsciana “dell’egemonia” e del “blocco storico”. Di un partito della classe operaia che esprime la sua egemonia non solo con le alleanze tra operai delle fabbriche del nord e contadini del sud, ma con ceti medi delle città e delle campagne, con intellettuali, con le donne. Un partito che si misura coi nuovi movimenti, quello del 68 dei giovani, degli studenti, quello delle donne, quello “dell’autunno caldo degli operai”, coi movimenti pacifisti che si sviluppano negli anni della dura guerra del Vietnam. Gli anni, dopo la morte di Togliatti, della transizione, guidata da Longo segretario, con un nuovo gruppo dirigente che va da Berlinguer a Natta, da Amendola a Ingrao, da Paietta a Napolitano. Anni in cui, anche nei momenti più aspri della divisione, come in quella della costruzione di una nuova unità sociale e politica, il PCI segue le regole fissate nella Costituzione e propone riforme strutturali capaci di affermare i valori e gli obiettivi sanciti nella Carta Costituzionale. Questo è il “filo rosso” della storia del PCI. Seguendo la linea di Togliatti di “fare l’interesse del Partito facendo gli interessi generali”. Che nel 70 conquista Regioni e si afferma al governo delle tre “Regioni rosse”, di cui l’Umbria, e nel 75, ne conquisterà altre, oltre l’Umbria, Toscana, Emilia, dal Lazio al Piemonte alla Liguria. Il PCI esprime i sindaci delle grandi città, da Roma (Pretoselli) a Bologna (Zangheri), da Firenze (Gabbuggiani) a Torino(Novelli). Sono gli anni della strategia della tensione, delle bombe, delle stragi, a partire da Piazza Fontana a Milano, gli anni dei tentativi di colpo di Stato. Della reazione e dell’eversione nera, neofascista. Poi gli anni del terrorismo, delle “brigate rosse”: “gli anni piombo”. Proprio in quel decennio che si apre con la grande riforma dello Stato, con le Regioni. Il PCI a metà anni 70 raggiunge il suo massimo storico, nelle elezioni regionali del 75 e nelle politiche del 76. L’idea di Berlinguer, del “compromesso storico” trova uno sbocco nei “governi di solidarietà nazionale”. Quella solidarietà nazionale resa necessaria per rispondere alle grandi emergenze, da quella economica, esplosa con la crisi energetica del 73, in cui l’Italia andava a piedi, alla crisi politica, agli attacchi del terrorismo. Il PCI nelle elezioni del 76 per il Parlamento ottenne il 34,4% contro il 38,7% della DC. Per la prima volta nel Parlamento della Repubblica, dopo la Presidenza Terracini alla Costituente, un dirigente del PCI, Pietro Ingrao, viene eletto Presidente della Camera dei Deputati. Nasce il Governo monocolore DC sostenuto dai Partiti della solidarietà nazionale, con l’appoggio esterno del PCI. Sono gli anni di svolta anche a livello internazionale, con la fine della lunga guerra del Vietnam da una parte, col Golpe di Pinochet nel Cile, con l’assassinio di Allende. Gli anni dell’idea “dell’eurocomunismo”, della tensione tra il PCI e il PCUS, della scelta di Berlinguer di sentirsi protetto sotto “l’ombrello della NATO”: il mondo del 48/49 era cambiato ed era cambiata la posizione del PCI. Sino ad un giorno cruciale, drammatico: quel 16 marzo del 1978. Quando si realizzò l’accordo tra la DC di Moro e il PCI di Berlinguer. Quella mattina in cui Andreotti si doveva presentare alla Camera, per eleggere il nuovo governo sostenuto dal PCI, in cui le BR rapirono Moro, uccidendo i cinque uomini della scorta. Sino all’assassinio di Moro e il ritrovamento del suo corpo in via Caetani, tra Botteghe Oscure, sede del PCI, e Piazza del Gesù, sede della DC. Quell’evento tragico che segnò, con l’inizio di quel nuovo Governo di solidarietà e l’assassinio di Moro, non solo la fine di una stagione di un uomo del dialogo, ma della storia della “prima Repubblica”, che si esaurisce all’inizio degli anni novanta. Quando sono scomparsi, Moro e Berlinguer in quel comizio drammatico a Padova. La scomparsa non più degli uomini del dialogo ritrovato, dopo decenni di “muro contro muro”, ma la fine di una storia fatta dai grandi Partiti, dalla DC al PCI. Nelle elezioni politiche anticipate del 79 il PCI pagò sul piano elettorale il prezzo per quelle scelte. Si pose fine al governo di solidarietà nazionale. Che non si interruppe a livello istituzionale. Una donna, Nilde Iotti, del PCI, venne eletta Presidente della Camera, sostituendo Ingrao, la prima donna al massimo livello istituzionale e Sandro Pertini, fu il primo socialista ad essere eletto Presidente della Repubblica. Gli anni 80 poi della rottura a sinistra, con i Governi Craxi. La scomparsa di Berlinguer dopo il duro scontro sul decreto S.Valentino sulla scala mobile. La segreteria Natta, prima, poi quella Occhetto. E subito dopo la caduta del “muro di Berlino”, del novembre 1989, la “svolta della Bolognina” di Occhetto, che propose di sciogliere il PCI, cambiandone il nome. Una fase travagliata, sofferta. Quasi due anni di discussione nella base, oltre che nel gruppo dirigente comunista. In due congressi. Quello di Bologna, nel quale la mozione del segretario Occhetto, prevalse con il 67% e la mozione di Ingrao e Natta ottenne il 29,7%, contraria allo scioglimento del PCI. Dopo il congresso di Bologna del marzo 90, si svolse il Congresso di Rimini, il XX della storia del PCI, dal 30 gennaio al 3 febbraio. Ed a Rimini, con 807 delegati favorevoli, 75 contrari e 49 astenuti il PCI si sciolse dando vita, al Partito Democratico della Sinistra. Mentre una minoranza dette vita a Rifondazione Comunista. Si concludeva così la storia lunga 70 anni. Che proseguiva col PDS, il quale aderiva all’Internazionale Socialista. La stessa dove vi era il PSI di Bettino Craxi. Il PCI nato dalla scissione nel PSI, come sezione italiana dell’internazionale comunista dà luogo ad un nuovo partito, il PDS, che entra nell’Internazionale Socialista insieme al PSI. Non c’era più da anni l’internazionale comunista. Non c’è più l’Unione Sovietica. Non ci sono più quei paesi comunisti. Non c’è più il PCUS, nonostante il tentativo di democratizzazione, fatta da Gorbaciov. La “spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre che si era esaurita” negli anni 70, secondo la dichiarazione di Berlinguer, finisce dopo il crollo del muro di Berlino, con la bandiera rossa ammainata sul Kremlino si era esaurita da un bel po’ di tempo. Era cambiata l’Europa. Era cambiata l’Italia. Tutti i Partiti di Governo, che con la storia del PCI avevano fatto la storia dell’Italia, del novecento, protagonista dell’Italia Repubblicana, si sono sciolti subito dopo. All’inizio degli anni novanta finiscono in “tangentopoli”, dalla DC al PSI. Ma la fine politica era già segnata prima. Da quel momento inizia una nuova storia. Con la carta della geografia politica dell’Europa che è cambiata: non ci sono più i paesi del “socialismo reale”. Con la geografia politica dell’Italia che è cambiata: non c’è più da ventanni il PCI, né gli altri partiti, protagonisti di passaggi cruciali della nostra storia. Più che celebrare il 90° della costituzione o il 20° dello scioglimento del PCI dobbiamo leggere questa storia e riflettere criticamente su di essa. Perché la storia di questo Partito è tanta parte della storia d’Italia. E’ storia innanzitutto di tanti che per un ideale hanno sofferto, pagato anche con la vita. E’storia di grandi trasformazioni, di emancipazioni, di progressi, di conquiste ottenute spesso a prezzo di dure lotte e con la fatica di governare processi complessi. E’ la storia di operai e contadini, di intellettuali e di artigiani, che dopo dure giornate di lavoro, la sera si ritrovano in sezione del PCI a discutere dei loro problemi ed insieme ad affrontare i problemi degli altri, di tutti, del loro Comune, del nostro paese, del mondo. Lo facevano spinti da grandi ideali, da grandi valori, dalle condizioni poste dalla vita di ogni giorno. Un Partito con un sistema di informazione e formazione. Con un giornale come l’Unità fondato da Gramsci, diretto da dirigenti del PCI in stagioni diverse: da Ingrao a Pajetta, da Reichlin ad Alicata, da Macaluso a Ferrara. Con una rivista come Rinascita, settimanali, Vie Nuove, Nuova Generazione ecc. E con migliaia di militanti che la domenica diffondevano l’Unità casa per casa. Un partito che era tanta parte del sindacato, la CGIL, con segretari come Di Vittorio, Novella, Lama, Trentin e in associazioni delle diverse categorie, dalla CNA per gli artigiani,alla Alleanza Contadini, dalla Lega delle Cooperative alla Confesercenti, dall’UDI sino all’U.I.SP. per lo sport. Un partito che è stato punto di riferimento di intellettuali ed artisti: da Visconti a Guttuso, da Enauidi a Pasolini, da Pavese a Calvino, dalla Ginzuburg a Levi, da Garin a Marchesi, da Saba a Luzzi, da Scola a Sanguinetti, da Lizzani a Taviani, da Argan a Lombardo Radice Pontecorvo ecc. E’ la storia di una classe dirigente che quel Partito ha costruito in tanti anni. Quella che ha governato tanti enti locali o che in Parlamento ha legiferato per dare attuazione alla Costituzione, per rispondere alle tante attese, ai problemi che insorgevano. Significa leggere e riflettere su ciò che si è fatto, per capire quanto costano certe conquiste. Ma anche per riflettere su errori, su limiti, sulle contraddizioni. Tra l’essere quella sezione italiana di quella internazionale comunista e l’essere una grande forza , un grande Partito nazionale. Pensiamo solo a questo. Il PCI non c’è più da 20 anni. Ma oggi a Presidente della Repubblica Italiana c’è un dirigente di quel Partito. Si chiama Giorgio Napolitano. Non è una bella eccezione. Ci sono dirigenti dei partiti di oggi, parlamentari, Presidenti di regioni e Province, Sindaci che vengono da quella storia. Ministri della Repubblica che vengono dal PCI, che col PDS o i DS sono stati al Governo, con donne come Anna Finocchiaro e Livia Turco ed uomini come D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani Ci sarà una ragione! Così come c’è una ragione se i quaderni del carcere, gli scritti di Gramsci, sono letti in tutto il mondo. Il PCI non c’è più. Ma ha ancora un peso. Come lo ha avuto in vita. Perché le idee non muoiono. E la storia non si cancella. Una storia che è in mostra a Roma, a cura delle Fondazioni Gramsci e Cespe, presentata dai Presidenti Vacca e Reichlin. Una mostra che racconta appunto “il PCI nella storia d’Italia dal 21-91”. Dentro questa storia, sta quella del PCI in Umbria. Che nella nostra Regione è ancora di più storia dell’ Umbria. Un Partito che naturalmente anche in Umbria nasce dal Partito socialista. Socialisti che in Umbria già nel 19 avevano il 46% dei consensi, che nelle elezioni amministrative del 20, prima del fascismo, conquistarono la Provincia e 44 Comuni. Non c’era il suffragio universale, non votavano le donne. Ma quella era la forza dei socialisti. Che in percentuale, col suffragio universale, è quello che conquista il PCI negli anni 70. Il PCI infatti è nelle elezioni regionali del 1975 che conquista il 46,1% con 14 seggi su 30. Un PCI che in Umbria ottiene con 275 mila voti, il consenso di un cittadino su due, con una sinistra che supera il 60%. L’Umbria diventa una delle tre Regioni rosse. Il PCI passa dal 27,93% delle amministrative del ‘46 al 47,28% politiche del ‘76. Il PCI in Umbria, in trenta anni, dal 46 al 76 avanza di venti punti,votato prima da un cittadino su quattro, poi da un cittadino su due. Un Partito che conquista la Regione dopo un lungo lavoro. Si comincia con pochi iscritti. Il PCI dopo la Liberazione, nel 45, in Umbria ha 43500 iscritti, salendo intorno ai 45 mila iscritti negli anni 70, mantenendosi sopra le 40 mila unità sino agli anni 90. Un partito di massa, sul piano elettorale ed organizzativo. Che ha tra i suoi fondatori i primi eletti alla Costituente e al Parlamento della Repubblica, da Carlo Farini ad Armando Fedeli. Con altri parlamentari come Angelucci ed il Presidente della Provincia di Perugia, Gino Scaramucci. Quel nucleo di Comunisti umbri che partecipa ai due congressi che si svolgono a Roma, nel 24-25, che sostengono la tesi di Gramsci in polemica con Bordiga negli incontri a cui parteciparono Togliatti e Longo in preparazione del Congresso di Lione del 26, a Roma. Lo stesso gruppo dirigente passato per la dura lotta clandestina che partecipò il 3 settembre del 43 a Roma ad un incontro a casa D’Onofrio con Longo Scoccimarro ed Amendola, per discutere sull’organizzazione della lotta di Resistenza. Una forte presenza nella lotta antifascista, nella clandestinità. Su 181 umbri confinati dal fascismo tra il ’26 e il 43 ben 79 sono uomini del PCI, Tra i 4300 partigiani umbri che parteciparono alla Resistenza, tanti erano comunisti. A cominciare da quelli della Brigata Garibaldina Gramsci, che in combattimento perse 165 partigiani, tra cui un prete, Mons. Chiaretti. Comunista era Germinal Cimarelli, medaglia d’oro della Resistenza e Alfredo Filipponi comandate dalla Brigata Gramsci. Alla generazione eroica dei combattenti antifascisti, che costruì il Partiti nella clandestinità si aggiunse quella dei ventenni della Resistenza, che dirigeranno il PCI nei decenni successivi in Umbria: da Ilvano Rasimelli a Raffele Rossi, da Francesco Innamorati a Vinci Grossi a Settimio Gambuli. Un Partito che dopo la lotta antifascista e la Resistenza è protagonista della ricostruzione. Con la loro presenza forte ed unitaria nei Comitati di Liberazione (CLN). Con un diffuso insediamento delle fabbriche, a cominciare dalla Terni alle campagne. Operai e mezzadri sono la base di massa. Il PCI da un contributo fondamentale al successo del Referendum per la Repubblica: Terni è la settima delle Provincie italiane che votò per la Repubblica nel 46. Il PCI costruisce i movimenti unitari di massa, con le lotte nelle fabbriche e nelle campagne. Paga un duro prezzo nella lotta per la pace: il 17 marzo 49, Luigi Trastulli, giovane operaio comunista dell’Acciaieria di Terni viene colpito mortalmente, ed altri operai sono feriti dai poliziotti, mentre escono dai cancelli delle fabbriche, per una manifestazione per la pace, contro il patto Atlantico, il 17 marzo 49. Quando esplode la guerra fredda i comunisti sono discriminati, tanto che in anni successivi il Parlamento lo riconoscerà con legge: tra i 2700 licenziati del 52-53 alla Terni, la gran parte è scelto tra i lavoratori comunisti. Quella vicenda pesò a lungo: alla tragedia dei licenziamenti si accompagnò il dramma della discriminazione. Il PCI è alla testa di quel peculiare processo unitario che nel decennio degli anni 60 porta all’esperienza del Piano Umbro. Lo fa in Parlamento coi suoi deputati, a votare gli Odg unanime per l’Umbria, nel 60 e nel 66, con Ingrao Guidi ecc..lo fa partecipando alla programmazione regionale col DC Micheli e col socialista Fiorelli, con uomini come Ottaviani e Rasimelli, Bartolini e Maschiella, Corraddi ecc. un Partito che elabora un progetto per l’Umbria. Di quella Regione che Ruggero Grieco, nel 54 descrive così: “l’Umbria è vecchia. La sua economia è rimasta indietro di decenni. L’Umbria è povera. Io conosco le povertà delle Provincie meridionali, me ne intendo. Forse la povertà umbra è più chiusa e più vergognosa di se, ma è pur essa antica e Francesco di Bernardone ne fu un grande e amabile testimone. L’Umbria sta diventando un rudere, nelle cui fessure vivono gli uomini. Io amo le pietre dell’Umbria perché ne comprendo l’immenso linguaggio”. Più di tanti dati, le parole di un intellettuale e dirigente politico come Grieco, descrivono l’Umbria degli anni 50. E negli anni 60 il PCI umbro è alla testa del grande movimento per la riforma agraria, il superamento della mezzadria, per il “ruolo propulsivo delle industrie a Partecipazione Statale e per la Regione. Lo fa guidando masse di operai e contadini e lo fa con un’azione unitaria ed attraverso la direzione degli enti locali. Vincendo quelle battaglie dopo aver pagato duri prezzi, con la cacciata dei mezzadri e degli operai dalle terre e dalle fabbriche, così come la chiusura delle miniere. Nel 70 il PCI è al Governo della Regione. Il primo Presidente Pietro Conti è uno dei massimi dirigenti del PCI. Tutti Presidenti della Regione in questi 40 anni da Conti a Marri, da Mandarini a Carnieri, sino alle donne che la presiedono nel duemila, quando il PCI non c’è più: la Lorenzetti e Catiuscia Marini vengono dal PCI. Così in Parlamento. Non solo prima col PDS-DS, ma ora, in una storia, nuova diversa, col PD, in Parlamento ci sono donne e uomini che vengono dal PCI, da Marina Sereni, a Mauro Agostini, a Valter Verini. Ci sarà pure una ragione! La capacità non solo egemonica, ma di formare e selezionare una vera classe dirigente. Che prima si forma nei Comuni. Sindaci di estrazione sociale diversa, operai, contadini, intellettuali a capo dei Comuni Umbri a cominciare da quelli che hanno ricostruito le città distrutte dalla guerra, ai fondatori della Regione: da Ottaviani a Terni a Monterosso a Spoleto, Lazzaroni a Foligno, Bei a Gubbio. Da Pannacci e Nocchi di Castello a Torroni di Orvieto, da Secci, Sotgiu, Porrazzini a Terni, a Meoni al Trasimeno, da Marchino a Monteggabione e Pecorari a S Giustino, da Toscano a Spoleto a Stella, Costantini e Proietti a Narni, da Paci a Sangemini a Pinacoli a Gualdo Tadino, Capuccelli a Marsciano, Sonaglia a Umbertide, Neri Gubbio, a Matteucci a Polino, sino ai Sindaci del duemila, di Perugia e Terni, quando il PCI non c’è più, da Locchi e Boccali, da Raffaelli a Di Girolamo. Ed in Parlamento il PCI, come nei Comuni, eleggeva uomini delle fabbriche, come Fedeli, Alfio Caponi, Emilio Secci, delle campagne come Silvio Antonini e Mario Bartolini, intellettuali come Raffaele Rossi, Alberto Guidi, Ilvano Rasimelli, Vinci Grossi, Maschiella, Franco Giustinelli. E donne, da Cristina Papa ad Alba Scaramucci a Rita Lorenzetti alla Camera ed alla Regione, da Catia Bellillo ad Anna Lizzi a Marina Sereni, Nadia Antonini. Il Partito eleggeva alla Camera, per la direzione nazionale Pietro Ingrao, ed al Senato Luciano Lama. Un Partito che nonostante fosse di opposizione al Governo centrale, sapeva dialogare con i Ministri, coi Partiti di governo, per fare gli interessi generali. Così come sapeva dialogare con la Chiesa: basti ricordare il dialogo con alcuni Vescovi a cominciare da Santo Quadri. “Eravamo riformisti, quando eravamo comunisti” dirà Lello Rossi che con Gino Galli, Gambuli e Carnieri è stato segretario regionale del PCI. Un Partito che ha contribuito a cambiare l’Umbria, le condizioni di vita e di lavoro per masse e generazioni diverse. Che ha radicato la sua presenza in tutto il territorio umbro come forza organizzata, avendo le sezioni sotto ogni ciminiera e accanto ad ogni campanile. Ma perché era una grande comunità di persone che insieme discutevano, lavoravano, lottavano per il progresso e per i valori scritti nella Costituzione. Un Partito che ha assolto, con limiti e contraddizioni, ad una funzione nazionale e regionale. Quella costruita in mille e mille riunioni di militanti, in mille e mille assemblee di elettori, in mille e mille comizi di popolo, nelle cento assemblee delle istituzioni umbre, e in Parlamento, alla testa di lotte di masse popolari, nella formazione della classe dirigenti, nella guida dei Governi locali e Regionali. Una storia di un Partito protagonista del novecento. Che non c’è più da venti anni. La cui storia ha un peso, ancora oggi, nel duemila. Una storia che va conosciuta, letta, riflettuta, come parte della storia d’Italia e dell’Umbria, in questi 150° della sua unità.
il cannocchiale
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