domenica 11 ottobre 2009
BERSANI : Apriamo il fronte di una battaglia democratica
Prima di ogni altra cosa un saluto a tutti gli iscritti che hanno partecipato ai congressi di circolo, comunque abbiano scelto o votato.
È stata una straordinaria e inedita prova di democrazia di cui dobbiamo essere orgogliosi.
Ricordiamoci che chi lavora per fare un partito lavora per realizzare la nostra Carta Costituzionale.
Sento la responsabilità che viene dal risultato della mia mozione. Cercherò di esserne all’altezza.
Lavorerò con gli altri candidati per una straordinaria partecipazione alle primarie e perché le primarie mostrino sia il nostro aperto confronto di idee sia la nostra amicizia e la nostra unità.
L’ho detto fin dall’inizio: non c’è bisogno di interpretare o tanto meno di deformare posizioni altrui, e ancora meno di litigare.
Ognuno dice la sua, iscritti ed elettori decidono. Noi ci atteniamo alle loro decisioni.
Ribadisco che per quello che mi riguarda l’unico avversario possibile è colui che piccona la ditta.
Gli altri sono tutti amici e compagni e voglio lavorare con loro in solidarietà e unità.
Questi minuti li dedicherò a parlare di politica e di Italia.
Dobbiamo sentire acutamente la responsabilità di far vivere la nostra vicenda congressuale nel pieno del passaggio cruciale che il nostro Paese sta vivendo, nel pieno della crisi democratica e sociale.
Guai se ci sorprendessero a parlare d’altro.
Parliamo di Italia dunque e parliamone in modo veritiero.
Quali sono i tratti di fondo di questa lunga fase della vita italiana?
Sono una deformazione di fatto degli equilibri costituzionali e un indebolimento progressivo delle nostre prestazioni economiche e sociali rispetto all’Europa e al mondo.
Dire questo non significa essere catastrofisti o alimentare la sfiducia o sottovalutare dinamismi, eccellenze, potenzialità a cui dobbiamo sempre richiamarci.
Dire questo significa ribadire che la realtà va guardata in faccia e che la retorica dello stellone italico, del sole in tasca, dei cieli azzurri sta addormentandoci tutti e rischia di distruggere la capacità di reazione del Paese.
Quei due problemi di fondo entrano oggi in una fase più acuta e più incerta sia dal lato democratico e istituzionale, sia dal lato economico e sociale.
Se si mette l’orecchio a terra si sente nervosismo diffuso, tensione, preoccupazione.
C’è una perdita di orizzonte, una insicurezza crescente nella vita delle persone e delle famiglie, nella prospettiva dell’impresa.
La stessa politica offre al Paese un messaggio di incertezza.
Per dirlo semplicemente, Berlusconi afferra ancora il presente ma non può promettere un futuro né ai suoi né al Paese.
Viviamo dunque su un crinale non sappiamo quanto lungo, né possiamo vedere oggi come si aprirà una fase nuova.
Quel che è certo è che una parte importante dei suoi possibili esiti è nelle nostre mani, nelle nostre mani a cominciare da questo Congresso.
Cominciamo dunque da quello che abbiamo vissuto in questi giorni tumultuosi.
La destra guidata da Berlusconi fa camminare il Paese sull’orlo di una deformazione populista del nostro sistema.
Dobbiamo mettere l’opinione pubblica e la coscienza civile del Paese di fronte alla gravità di questo problema.
Intendiamoci, pulsioni di tipo populista, cioè di semplificazione drastica dei processi di partecipazione democratica, li riscontriamo in molti paesi a democrazia matura.
La difficoltà della democrazia rappresentativa a dominare con efficacia i nuovi problemi lascia spazio a domande di semplificazione e di autorità.
Se altrove tuttavia queste pulsioni sono sfumature pur significative nei meccanismi di consenso, da noi il fenomeno sta penetrando ed è già penetrato ben più in profondità.
Possiamo discutere delle ragioni di tutto questo, ragioni che affondano probabilmente nella cronica debolezza della nostra statualità, nel forte sapore di antipolitica che lasciò in eredità la caduta del muro che avevamo in casa, nella singolare forza, oggettiva e soggettiva, dell’interprete del nuovo spartito.
In ogni caso i fatti ormai si vedono.
Sto parlando del progressivo indebolimento di ogni istituto di mediazione fra popolo e governo, sto parlando dell’idea che il consenso debba prevalere sulle regole, sto parlando dell’idea che noi si sia di fatto fuori dal sistema parlamentare, che gli elettori cioè non eleggano un Parlamento ma un capo e che si possa parlare tranquillamente di coabitazione fra Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio.
Questa deformazione ha via via consolidato dei suoi istituti.
Vediamo con evidenza, e le denunciamo, forme di controllo e condizionamento dei mezzi di informazione; vediamo con minore evidenza un fatto ancora più profondo che riguarda la formazione delle leggi.
Il Capo del Governo nomina ormai di fatto i suoi parlamentari.
È il capo che dà la fiducia alla maggioranza e non viceversa.
Con venticinque voti di fiducia e trentotto decreti omnibus in quindici mesi ogni decisione è resa possibile; e quindi ogni pressione e perfino ogni ricatto possono essere possibili verso forze economiche e soggetti sociali, così che prevalgano assuefazione e conformismo; così si pensa di poter portare l’opposizione a quella sensazione di impotenza che genera riflessi ribellistici e minoritari.
Eppure la Costituzione c’è e batte un colpo.
C’è il Presidente della Repubblica, che salutiamo da qui, c’è la Corte Costituzionale.
Ma ecco che arrivano le picconate contro i muri portanti della casa comune.
E le picconate rallentano quando il segno comunque è lasciato e sono pronte comunque a riprendere.
È tempo di reagire ad una deriva che a poco a poco ci allontana dal contesto delle grandi democrazie del mondo.
Ma come reagire?
Non possiamo reagire con risposte speculari che portano legna a quel fuoco che Berlusconi vuole accendere attorno ad una personalizzazione che fa del giudizio del popolo su di lui il giudizio di Dio.
Né peraltro possiamo reagire stando in difesa e abbarbicandoci al politicamente corretto.
Ci vuole una politica di combattimento, bisogna aprire il fronte di una battaglia democratica.
Credo che ci chiamiamo Partito Democratico non perché vogliamo sperimentare la democrazia perfetta in casa nostra, ma perché poniamo al Paese il tema della democrazia e di una democrazia efficiente.
Vogliamo custodire i pilastri costituzionali di una democrazia rappresentativa, rigettare ogni forma di autoritarismo che ci ruberebbe il futuro di paese avanzato fra i paesi avanzati del mondo e ci distaccherebbe intimamente dal contesto europeo.
È tempo di aprire un confronto con tutte le altre forze di opposizione sul tema della democrazia e delle Istituzioni e di rivolgerci alle forze che nella maggioranza sono più consapevoli del problema.
Ribadendo i fondamentali della nostra Costituzione repubblicana dobbiamo avanzare il nostro progetto di riforma centrato su il parlamentarismo modernizzato e rafforzato e scegliendo qualche punto di attacco e di mobilitazione che si faccia capire e che muova le cose nel senso comune.
Quella deriva infatti ha inquinato le falde da cui tutti ormai prendono acqua.
Proviamo con le nostre primarie a dire una cosa precisa.
È possibile che un cittadino possa scegliere il Segretario del PD e non possa scegliere il suo Parlamentare?
Noi vogliamo una legge inquadrata nel sistema bipolare, che garantisca trasparenza e stabilità della maggioranza nella legislatura, e che consenta al cittadino di guardare in faccia il suo Parlamentare, di potergli chiedere conto del suo operato a partire dal suo territorio.
Dobbiamo mobilitarci su questo e chiedere a tutte le forze di opposizione se sono pronte a discutere con noi di una iniziativa su questo punto dirimente.
Detto tutto questo aggiungo subito che non dovremo più fare una battaglia sulla questione democratica separandola dalla questione sociale.
Ogni forma di mobilitazione a cui potremo e dovremo pensare dovrà tenere collegate le due questioni.
Per la storia profonda e per i caratteri profondi di un Paese come il nostro la deformazione del processo democratico può andare in secondo piano se passa l’idea che per quella via qualche problema si risolve.
Non c’è certo bisogno di spiegare questo concetto al nostro Presidente del Consiglio.
Lui si presenta come il personaggio di Pulp Fiction: sono Wolf, risolvo problemi sempre che mi lascino lavorare.
Ma quali problemi ha risolto davvero il signor Wolf?
In ormai dieci anni di governo qual è una riforma che si possa ricordare e che non riguardi lui stesso? Abbiamo forse meno fisco, meno burocrazia, più occupazione, più crescita?
In che cosa è migliorato questo Paese? E adesso, nella crisi, che cosa possiamo dire che stia facendo precisamente se non aspettare che torni il bel tempo?
Non c’è bisogno di essere degli indovini per sapere che cosa succederà: avremo tra quest’anno e l’anno prossimo un milione di disoccupati in più e migliaia di piccole imprese in meno.
E tutto questo per una crisi psicologica! Dopo tanti anni di governo non c’è niente di risolto.
Non si è usato il consenso per fare governo e cioè riforme; si è usato il governo per fare consenso.
Nel Paese è aperta una grande questione sociale alla quale dobbiamo dare voce, per ragioni di giustizia; perché questo è il nostro mestiere; e anche per ragioni di democrazia: la crisi infatti può creare un ulteriore esercito di riserva per le manovre del capo.
Il nostro compito è dunque quello di interpretare la questione sociale, anche in questo caso offrendo uno sguardo ampio del problema e scegliendo punti di attacco e di mobilitazione.
Andiamo alla sostanza. Problemi ne hanno tutti in Europa e nel mondo. Ma da molti anni ormai quando in Europa e nel mondo si cresce noi cresciamo meno e quando si scende noi scendiamo di più.
Così ci giochiamo il futuro.
Anche in questa crisi, se invece di guardare ogni giorno un albero noi guardassimo la foresta, vedremmo che rischiamo una riduzione strutturale della nostra base produttiva, un nostro rimpicciolimento.
Stiamo buttando via le nostre risorse potenziali nell’eccesso di disuguaglianza fra ceti sociali e territori, nell’assenza di mobilità sociale, nell’incapacità di prendere decisioni di sistema, cioè di fare riforme.
Dobbiamo rilanciare l’idea delle riforme con il coraggio e la responsabilità di una nostra visione autonoma.
Riforme sociali, riforme liberali, riforme civiche. Riforme con un nome e un cognome. Non servono qui i soliti elenchi.
Servono punti d’attacco per le proposte e per le iniziative che dobbiamo decidere. Cominciamo da occupazione e redditi.
La priorità assoluta e immediata è quella di portare risorse sui redditi medio-bassi, su chi sta perdendo il lavoro, su chi ha superato la soglia di povertà.
Ci sono poi cantieri di riforme da allestire subito su soglie minime di salario, di reddito, di pensione; sull’unificazione e la tutela dei percorsi di ingresso al lavoro; sulle prospettive del sistema pensionistico e non già dal lato dell’allungamento dell’età (chi ha visto l’evoluzione delle norme sa che questo non è più il problema centrale!) ma bensì sulla tenuta dei livelli pensionistici per le nuove generazioni.
Dobbiamo aprire un confronto per un nuovo patto economico e fiscale con le piccole imprese e con le partite iva, mondo verso il quale abbiamo un problema non risolto.
Dobbiamo promuovere un piano per mettere ambiente ed efficienza energetica immediatamente e stabilmente nel motore della crescita, investendo le politiche industriali, le politiche pubbliche e la qualificazione dei consumi.
Dobbiamo interpretare meglio i temi della scuola e della sanità.
Scuola, Università e Ricerca: la prima e vera fonte energetica del Paese.
Il tratto prevalente dell’operazione Tremonti-Gelmini è quello di una riduzione dell’offerta formativa e dell’occupazione.
Possiamo dire subito che quando toccherà a noi non potremo accettare gli esiti di quella importazione.
Ma così di sussulto in sussulto, il sistema formativo va alla catastrofe in un continuo bricolage di cambiamenti.
Diciamo allora: fermatevi, non consentite il distacco di risorse professionali preziose per il sistema.
Fermatevi, e facciamo finalmente una operazione nazionale, parlamentare sul sistema formativo, mobilitando le migliori competenze così come si fece ad esempio per la riforma del sistema sanitario nazionale, offrendo alle nuove generazioni e al Paese un assetto moderno, stabile e condiviso dell’istruzione e della ricerca.
Quanto alla sanità, qualificazione sì, radicale risanamento sì: abbiamo peraltro eccellenze nell’organizzazione sanitaria in grado di indicare la strada per affrontare i buchi neri che pure abbiamo.
Ma distruggere il sistema universalistico, no! I livelli essenziali di assistenza sono un cardine del sistema universalistico e vanno garantiti in modo universale.
Subito accanto ai temi sociali mettiamo il tema dell’evoluzione dei diritti civili e del rispetto della dignità delle persone.
Basta con gli stereotipi distruttivi sulla dignità della donna. Rispetto per le donne.
Torniamo piuttosto a vederne le condizioni reali di svantaggio e di disuguaglianza, di carico e di fatica nell’organizzazione sociale e familiare.
Aggiungo che a questo fine non si può prescindere da una loro presenza e da un loro protagonismo nei luoghi di decisione.
Per questo non vedo perché non dovremmo sollevare davanti al Paese il tema di regole di transizione o di quote massicce e transitorie sia nei luoghi della politica e delle istituzioni sia in alcuni luoghi dell’economia e della società.
Mostriamoci combattivi, così come stiamo facendo, contro razzismi di ogni genere e contro l’omofobia.
Facendo leva sugli umanesimi forti che stanno nelle nostre radici e che ci consegnano l’idea di un uomo mai separabile dalla sua dignità e dalla sua libertà, stiamo in campo per l’umanizzazione delle conquiste della tecnica.
Diciamolo con chiarezza: non può essere che metà del Paese decida come debba morire l’altra metà; non è possibile. Cerchiamo soluzioni umane e condivise.
E ancora il civismo: grande punto di attacco per le nostre politiche e vera chiave di rapporto con la società civile che anzi preferirei definire come società civica.
Civismo vuol dire innanzitutto sobrietà della politica senza antipolitica.
Ci vuole una Maastricht sui costi della politica che ci metta nella media europea.
Così come ci vuole una Maastricht della fedeltà fiscale con un percorso fatto di dissuasione e di incentivazione.
Civismo è portare il merito dal cielo alla terra accettando e allestendo in ogni campo meccanismi credibili di valutazione; è rispetto per la sicurezza e per la vita umana nei luoghi di vita e di lavoro e soprattutto è legalità, la legalità dello Stato e non delle ronde, la legalità della lotta a tutte le mafie, la legalità di una giustizia civile finalmente riformata e funzionante.
Qui, in questa riscossa civica che il Partito Democratico deve interpretare, metto anche il tema dell’unità del Paese.
Unità ormai non solo o tanto da difendere quanto da conquistare e ricostruire.
Il blocco Lega-destra sta facendo passare l’idea che la politica non deve combattere il divario ma deve interpretarlo, rappresentarlo.
Nella loro visione in realtà la prospettiva del federalismo è appunto questo e questo fa da copertura alla distruzione di ogni politica meridionalistica e alla rapina di ogni risorsa.
Qui e là qualche retro pensiero liquidatorio del tema emerge anche nel nostro mondo.
Anche noi dobbiamo discuterne ma sono convinto che siamo i soli che possono dire le stesse cose a Varese e a Napoli e che possono legare il rinnovamento delle classi dirigenti a politiche meridionalistiche praticabili e davvero nuove nei contenuti.
Sono convinto che abbiamo la forza e la capacità di farlo.
Un altro punto d’attacco per noi è la libertà economica.
Mentre ribadiamo che ci sono beni fondamentali che non intendiamo affidare al mercato (salute, istruzione, sicurezza) diciamo anche che è tempo di una offensiva liberale per aprire mercati regolati in molti settori dell’economia oggi strozzati da sistemi relazionali, corporativi, monopolistici.
Il cittadino-consumatore al centro e al centro la possibilità di iniziativa economica su basi di parità, a cominciare dai giovani!
In questo quadro dobbiamo mettere, facendolo uscire dalle nebbie e portandolo al concreto il tema del conflitto di interessi, fissandolo precisamente su due punti.
Primo, le incompatibilità. Per esempio, chi è nella sostanza il concessionario non può fare anche il concedente.
Secondo, norme contro le posizioni dominanti in tutte le articolazioni che l’evoluzione tecnologica ha portato nei sistemi di comunicazione e di informazione. Qui sta la sostanza del problema; su questo, in una società liberale va concentrata l’iniziativa.
Credo infine ad un nostro risveglio di iniziativa nel grande campo delle politiche locali ormai crucialissime nella formazione degli orientamenti politici.
Le nostre culture che hanno le loro originarie radici nella dimensione del territorio, le nostre culture che hanno inventato l’urbanistica, gli asili nido, le aree artigianali, la sanità pubblica e così via non hanno niente da imparare da chi il quindici anni di veramente nuovo ha inventato solo le ronde.
Tuttavia non possiamo cavarcela così. Dobbiamo portare a sintesi e a politicità le nostre esperienze locali sui nuovi temi di frontiera: la sicurezza, la mobilità, l’ambiente, l’immigrazione, l’integrazione, la rete sussidiaria delle risposte sociali.
I nostri amministratori e in particolare le nuove generazioni dei nostri amministratori, devono essere messe in condizione di aiutarci a produrre un punto di vista, un orientamento nazionale riconoscibile ed identificabile sulle nuove politiche locali.
Mi fermo qui.
Da questi e da altri punti di attacco concreti devono emergere sia il nostro profillo di identità politica, sia la nostra vocazione ad una alternativa di governo, una vocazione al governo del cambiamento.
Noi siamo il partito che pone la questione dell’alternativa di governo sapendo bene che il tempo della semina non è quello del raccolto ma sapendo altrettanto bene che in vista del raccolto la semina ha una certa importanza.
Opposizione vuol dire opporsi e vuol dire anche lavorare visibilmente per offrire un’altra scelta ai cittadini elettori.
Dobbiamo con il Congresso dare un messaggio chiaro e generoso verso l’esigenza di organizzare il campo dell’alternativa.
Chiediamo altrettanta generosità a tutte le altre forze dell’opposizione.
Non siamo più nello scenario di frammentazione esasperata del sistema.
La scelta di fare il Partito Democratico ha cambiato la situazione.
Adesso abbiamo tre cose da fare: rinnovare e rafforzare noi stessi; riaprire il cantiere dell’Ulivo con movimenti politici e civici disposti ad un dialogo con noi; lavorare per un quadro ampio di alleanza politiche.
Noi non vogliamo fare da soli né ci immaginiamo da soli nel futuro.
Chi pensasse di fare da solo lucrando qualcosa dalla divisione delle forze di opposizione se ne prenderebbe la responsabilità.
Penso anzi che dobbiamo proporre già con il nostro Congresso ampie alleanze democratiche e di progresso per le prossime elezioni regionali.
Noi giungiamo a questa politica di apertura con un profilo nostro, senza trattini o divisione dei compiti, con un nostro modo di rivolgerci a tutta l’area del centrosinistra e a quella parte dei ceti popolari che fino a qui hanno guardato a destra.
Il profilo nostro che ho definito sociale, civico e liberale, con la forma, il linguaggio e l’organizzazione di un grande partito popolare dei tempi moderni.
Un partito che si rivolge con concretezza ai ceti popolari (lavoro, piccola impresa, famiglia, nuove generazioni).
Un partito che lavora per correggere i suoi difetti (ne abbiamo visti non pochi in questo viaggio e dovremo ritornarci con grande determinazione).
Un partito non di un uomo solo ma che vive come comunità di protagonisti, che accetta una disciplina liberamente condivisa, che lavora su un rinnovamento fatto non per via di simboli ma riconoscendo piuttosto le nuove forze che sono già in campo e aprendo loro la strada.
Un partito che riconosce che non c’è politica senza pensiero e che riprende quindi in modo non occasionale un rapporto con le forze intellettuali.
Ovviamente un partito plurale, ma non in forma di coabitazione per quanto amichevole.
Un partito che si costruisce come sintesi creativa fra antiche radici e nuove culture.
Se dico sinistra, se dico popolarismo, se dico cattolicesimo democratico, se dico laicità, se dico civismo non sto parlando di correnti, sto parlando di materiali preziosi da amalgamare per costruire il nostro nuovo muro maestro così che le sensibilità e i punti di vista plurali non si balcanizzino e non siano esclusi dalla centralità di un impianto di cultura politica, da trasmettere alle nuove generazioni.
Cari amici e compagni,
invece di dire "futuro" ho detto "storia e senso" sperando che si capisse che intendevo appunto parlare di futuro. Di un futuro che non dimentichi tutti quelli che pronunciando le parole di cui noi facciamo facile uso (libertà, giustizia, democrazia) hanno pagato un prezzo ben più alto del nostro.
Di un futuro che puoi affrontare se ti armi non di vuota retorica ma di un senso sicuro, stabile, convinto. Ho detto cento volte qual è per me il senso e lo ripeto qui: se ti metti dalla parte dei deboli, dei subordinati, di chi lavora, di chi produce puoi fare una società migliore per tutti.
Questo è il senso che vi propongo.
Se non fosse vero questo, se non fosse razionale anche oggi e per il futuro guardare l’innovazione con gli occhi della giustizia e della libertà di tutti, noi non avremmo un mestiere.
Invece è questo il nostro mestiere, la nostra ragione sociale, il nostro senso; quello per cui ci mettiamo in libera associazione, quello per cui diciamo a un giovane: vieni, cambiaci in meglio, combatti con noi!
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