venerdì 21 gennaio 2011

PROVANTINI : la storia del PCI

Il PCI nella storia d’Italia e dell’Umbria
di Alberto Provantini
Il PCI nasce nel pieno inverno del 1921 e si scioglie nel pieno inverno del 1991. Novanta anni fa, il 21 gennaio, a Livorno, viene fondato il PCI, dai “comunisti puri”che abbandonano, come mozione di minoranza, il 17° congresso del PSI e vanno al teatro S. Marco a costituire il nuovo Partito. Il PCI si scioglie dopo 70 anni di vita intensa, protagonista della storia d’Italia, al suo XX congresso, che si tiene a Rimini a fine Gennaio di 20 anni fa. Il PCI non nasce dal nulla, ma dal PSI, che aveva già una storia e continuerà ad averla per quasi tutto il secolo scorso. Il PCI non finisce nel nulla ma da vita al PDS, nel quale non entra una minoranza, che a sua volta da vita a Rifondazione Comunista. Un Partito che non c’è più da ventanni. Che ha avuto un ruolo importante, nella lotta clandestina durante il ventennio fascista e poi in quel mezzo secolo che va dalla Resistenza alla Liberazione, dalla dittatura alla libertà, dalla monarchia alla Repubblica, dalla guerra alla pace, dalla ricostruzione post-bellica alla costruzione della democrazia nell’Italia repubblicana, scrivendo ed approvando la Costituzione, governando per un breve periodo l’Italia, amministrando per decenni città e province, e dal 1970 governando alcune Regioni, a cominciare dall’Umbria. Quest’anno sono cominciate le celebrazioni del 90° del PCI. Dentro le celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia. Perché la storia del PCI va letta dentro la storia d’Italia. La riflessione critica sulla storia del PCI va fatta nella riflessione sulla storia d’Italia. In essa va fatta la riflessione sulla storia del PCI in Umbria. Che è tanta parte della storia della nostra Regione. “La storia di un Partito è storia del suo paese, da un punto di vista monografico” scriveva Gramsci. E Togliatti alla Costituente dichiarava: “i partiti sono la Democrazia che si organizza”. La storia del PCI non è solo quella di una classe dirigente, che ha espresso una cultura politica, che ha governato e concorso a cambiare il nostro paese, ma è storia di masse, di milioni di donne ed uomini, che si sono organizzate nel Partito, che con il Partito hanno condotto lotte, si sono emancipati, hanno subito sconfitte, sofferto angherie ed ingiustizie, ottenuto progressi, realizzato sogni, conquistato riforme. Il PCI è stato un grande partito nazionale ma è stato allo stesso tempo parte integrante della storia del comunismo internazionale. Le sue vicende vanno lette con le due lenti degli occhiali: quella internazionale e quella nazionale. Entrambe ne condizionano la nascita, la vita, l’opera, lo scioglimento. Il PCI nasce dopo il successo della “rivoluzione d’ottobre”, quando i bolscevichi, guidati da Lenin, conquistano il potere in Russia nel 17. Nasce dopo la prima guerra mondiale. In un Europa attraversata dai grandi movimenti operai e contadini. Nasce dopo il 19 della costituzione della Internazionale Comunista, alla quale aderisce. Mentre le speranze erano di “fare come la Russia”, ed in Italia, da una parte c’erano le grandi lotte con mezzo milione di operai metallurgici che occupavano le fabbriche, con i socialisti che “avvertono i soldati e i contadini a tenersi pronti perché il giorno della libertà e giustizia è vicino” e dall’altra parte c’è la reazione fascista, col Re, che dopo la marcia su Roma del 22, nomina Mussolini a capo del Governo. Un PCI che nasce in quel grumo di vicende interne e internazionali. Un PCI che cambia, già dinnanzi alle leggi fasciste che mettono al bando i Partiti, che passa alla clandestinità, e che nel Congresso del 26 a Lione, “rinasce” con l’elezioni di Gramsci a segretario e un esecutivo con Togliatti, che dopo lo sbarco a Salerno annuncia nel ‘44 il “Partito nuovo”. Che cambia nel corso degli anni dell’Italia repubblicana e democratica, passando dai primi governi di unità nazionale alla lunga opposizione dal maggio 47 sino al 76, quando l’idea del “compromesso storico” di Berlinguer porta all’accordo con la DC di Moro, ai “governi di solidarietà internazionale”, sostenuti dal PCI. Le vicende interne ed internazionali sono alla base non solo della nascita e della vita del PCI, che nei blocchi contrapposti del mondo diviso in due porta ad escludere i comunisti dai governi dei paesi occidentali, ma si conclude quando in Europa viene abbattuto il muro di Berlino, crolla il sistema Sovietico, con l’URSS ed i paesi satelliti del Patto di Varsavia, ed in Italia finisce la storia della “prima repubblica”, e scompaiono tutti i Partiti del novecento: dalla DC al PSI. Il PCI che nelle elezioni europee del ’84 divenne il primo partito in Italia con il 33,3% dei voti, e che è stato il più grande partito comunista dell’occidente, non c’è più da venti anni: la sua storia è irripetibile, chiusa, ma ancora ha peso. Quella navigazione lunga settanta anni, dal Tirreno all’Adriatico, da Livorno a Rimini, è passata per il cuore delle nostre città. “Veniamo da lontano ed andiamo lontano” diceva, Togliatti. I suoi dirigenti sono stati nelle isole, al confino e nelle galere fasciste. Su 4671condannati dal Tribunale Speciale fascista nel 1926, l’80% era dei comunisti, ben 4 mila erano del PCI, che scontarono 23 mila anni di carcere. Tra questi Antonio Gramsci. I suoi dirigenti ed i militanti del PCI erano sulle montagne, nelle brigate dei Partigiani, nella lotta di Resistenza, sino alla Liberazione d’Italia, in quel 25 Aprile 45: erano nello scatto di quella foto, a Milano, con in testa i capi comunisti Longo, Amendola, Pajetta. Tra i 46 mila partigiani morti in battaglia e i 21 mila feriti, e tra le diecimila vittime di rappresaglie che colpiscono tutti, di tutti i Partiti antifascisti, la gran parte è fatta di comunisti: ad Alcide Cervi, a Reggio Emilio, assassinarono i suoi sette figli. Il PCI è il Partito più organizzato nella lotta antifascista e nella guerra di Liberazione. Nell’Italia liberata il PCI è nei Comitati di Liberazione Nazionale a ricostruire le città distrutte dalla guerra ed avviare la costruzione della democrazia. Nel CLN sono rappresentate tutte le forze antifasciste della Resistenza, dai comunisti ai democristiani, dai socialisti agli azionisti, dai repubblicani ai liberali. Quel gruppo dirigente che nel 26 viene eletto nel Congresso di Lione, con Gramsci segretario, Togliatti, Scoccimarro, Terracini, Camilla Ravera, che sarà condannato dal tribunale speciale, viene “disperso” per un ventennio, perdendo nel 37, la sua mente, la sua guida, Antonio Gramsci. Ma si ricompone dopo la Liberazione. Con Togliatti V. Presidente del Governo Bonomi già nel 44 e con Ministri del PCI nei successivi Governi presieduti da Ferruccio Parri nel 45 e dal DC Alcide De Gasperi nel 46: a Ministri ci sono proprio i condannati dal fascismo, da Togliatti a Scoccimarro a Gullo. Siamo ancora nella monarchia. La Repubblica si affermerà con il referendum del 2 giugno del 46. Ed in quel referendum ed in quel testa a testa di voti, certamente determinante è la scelta del PCI di votare per la Repubblica. I dirigenti del PCI sono nei primi governi di unità nazionale dopo la Liberazione. E sono nei primi governi della Repubblica Italiana. Sempre con De Gasperi Presidente, ci sono i Ministri comunisti: da Scoccimarro a Gullo a Emilio Sereni, sino al maggio 47. L’assemblea Costituente che scrive la Carta fondamentale, cioè la Costituzione, è presieduta da uno dei fondatori del PCI, da Umberto Terracini. E’ lui che firma la Carta Costituzionale, dopo essere stato per anni nel carcere fascista. Quel 47 che segna il massimo di unità, nella condivisione dei valori sanciti nella Carta Costituzionale, coi primi articoli firmati dai dirigenti della DC come Moro, Fanfani, La Pira e di comunisti come Amendola, Nilde Iotti, Laconi. E segna anche la fine di quella decisiva stagione della storia d’Italia fatta d’unità nella Resistenza, nella Liberazione, nella ricostruzione, nella Repubblica, nella Costituzione. E che segna, non solo l’unità della politica delle forze democratiche. Ma di Partiti che col Patto di Roma del 44, danno vita al Sindacato Unitario dei Lavoratori Italiani, la CGIL, firmato da Achille Grandi per la DC da Canevari per i socialisti e da Giuseppe Di Vittorio per il PCI, che sarà il comunista che dirigerà il più grande sindacato unitario. Finirà allora, dopo la primavera del 47, e poi con l’elezioni del 18 aprile del 1948 quella stagione di unità. Con la “guerra fredda”, con i patti che dividono l’Europa ed il mondo in blocchi contrapposti, ci sarà la divisione, che porta il PCI ad essere escluso dai governi del paese ed alla lunga opposizione. Quel quadriennio, 43-47segna i passaggi decisivi per la storia dell’Italia. E in quel crocevia della storia il PCI passa dalla clandestinità, dal carcere, ai Palazzi di Governo, dalla lotta armata della guerra di liberazione alla direzione della ricostruzione materiale e morale dell’Italia. E’ proprio in quegli anni, che nasce il “Partito Nuovo”, nell’Italia libera. Di un Partito nuovo che diventa una grande forza politica di massa. Avviene dopo la lunga notte della dittatura e della guerra. In quei mille giorni della bella primavera e delle grandi speranze. Nella quale si tornava a sperare. In pace, nella serenità, spesso nella felicità, si lavorava per ricostruire case e fabbriche, scuole ed ospedali. E si tornava a parlare, discutere, a organizzare la vita democratica. Il Partito organizzava i lavoratori, i cittadini, discuteva di ideali e cose concrete. Si ricostruivano nel ‘46 i Comuni, i primi centri della democrazia. Tanto nel Governo, che nell’Assemblea Costituente ci sono i dirigenti del PCI condannato al carcere; da Togliatti a Terracini, così come c’è Di Vittorio al Sindacato, e Dozza è il simbolo dei Sindaci dei nuovi Comuni, in questo caso il mitico Sindaco di Bologna. I lavoratori incontrano il PCI incontrando quei dirigenti comunisti, che si identificano fisicamente con la lotta per la libertà, per la pace, per la democrazia, ed allo stesso tempo quelli che nel Comune, nel Governo e nel sindacato si battono per dare “pane e lavoro”, una casa, ed una speranza. Subito dopo la liberazione, il PCI è una forza organizzata con l’adesione di un milione e 770 mila di iscritti nel 45, che sale a 2 milioni e 252 mila nel 47. Prima del fascismo, appena nato, il PCI nel 21 contava appena 42700 iscritti. Ed in quelle elezioni, del 21 raccolse solo 292 mila voti, eleggendo 15 deputati contro il milione e mezzo del PSI che elesse 123 deputati. Il PCI tuttavia, nonostante la massa di iscritti, ottenne solo il 18,9% alle elezioni per la Costituente del ‘46 risultando il 3° partito, dopo la DC che ebbe il 35% e i socialisti (PSIUP) che ebbero il 20,7%. La stagione di rottura dell’unità che c’era stata dalla resistenza alla Repubblica alla Costituzione si apre il 18 aprile 48. Nell’elezione del primo Parlamento della Repubblica, il Fronte Popolare, l’alleanza cioè tra PCI di Togliatti e il PSI di Nenni, viene sconfitto: “Garibaldi” ha perso, si dirà. Vince la DC di De Gasperi con il 48,5% dei voti. Anni duri per il PCI e la sinistra. Nell’Europa segnata dalla spaccatura non solo dei blocchi ideologici politici, della divisione tra est e ovest, ma coi patti militari, e l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, nel marzo del 49. E giunse persino la scomunica del Papa per i comunisti nel luglio del 49. Ci fu in quel 49 l’attentato a Togliatti. Il pericolo scongiurato di una guerra civile. Anni di forte tensione sociale e di aperto conflitto politico. Tra il 48 e il 52 ci furono 65 morti nelle manifestazioni di piazza. Anni non solo di repressione nelle manifestazioni ma di discriminazioni per i lavoratori comunisti nelle fabbriche. Nelle elezioni politiche nel 1953 non scatta la “legge truffa”, la DC ed i partiti centristi non raggiungono il quorum che avrebbe fatto scattare la maggioranza assoluta. Il Parlamento nega la fiducia all’8° governo De Gasperi. Si esaurisce la guida dell’uomo politico che a capo della DC, guida i governi di unità nazionale con comunisti e socialisti, poi quelli centristi della rottura con la sinistra, che governò gli anni difficili della ricostruzione dell’Italia. Sono gli anni del grande sostegno americano all’Italia: Piano Marshall. Sono gli anni della divisione del mondo e dell’Europa, divisa tra Patto Atlantico, sotto l’egemonia americana e Patto di Varsavia sotto quella sovietica. Gli anni in cui permane “il legame di ferro del PCI con l’URSS”. Nel 56 la svolta con l’8° Congresso del PCI. Quello in cui Togliatti indicò la “via italiana al socialismo”. In quel crocevia del ’56 tra i carri armati russi a Budapest e le navi anglo francesi a Suez, nel quale Krusciov, il nuovo capo dei comunisti sovietici, denunciò i crimini di Stalin. Che ebbe grandi effetti. Non solo all’esterno, ma all’interno del PCI. Dove le masse erano legate non solo al mito della Rivoluzione d’Ottobre di Lenin, ma all’armata Rossa di Stalin che era arrivata a Berlino, e con gli alleati anglo-americani aveva sconfitto il nazifascismo, vinto la seconda guerra mondiale. Masse che non conoscevano le posizioni critiche su Stalin espresse da Gramsci sin dalla fine degli anni venti o da uomini come Terracini. Un processo che Togliatti portò avanti fino alla morte, nel 64, con il “memoriale” di Yalta sulla “unità nella diversità”. Sino a quando nel 68 quel “legame di ferro” si spezzò: quando il PCI espresse duramente e nettamente l’opposizione all’invasione sovietica della Cecoslovacchia e il sostegno alla “Primavera di Praga” di Dubchek. Altro momento attraversato con tensioni non solo esterno ma interno al Partito. Ma è in quegli anni, quello del “miracolo economico”, delle prime riforme, da quella agraria a quella industriale, dalle partecipazioni statali alla nazionalizzazione dell’industria elettrica, negli anni in cui si fa il primo centrosinistra, con l’alleanza tra la DC e il PSI, in cui cambia la situazione non solo interna ma internazionale, con Kennedy alla Casa Bianca, con Papa Giovanni del Concilio con i nuovi movimenti che riprendono nel paese, sulle grandi questioni della pace, della Riforma dello Stato, dello sviluppo economico, della modernizzazione, che il PCI, che si voleva nell’angolo, diviene protagonista di una nuova stagione. Il PCI del “centralismo democratico” nel quale all’XI Congresso Ingrao pone il problema della discussione aperta, ove sia trasparente anche all’esterno il dissenso interno ed allo stesso pone il problema di un nuovo “modello di sviluppo”. Le scelte fondamentali venivano prese dalla Direzione del Comitato Centrale. Sulla proposta del segretario c’era una discussione, nei comitati regionali, delle federazioni provinciali, con gli iscritti nelle sezioni. Le decisioni impegnavano tutto il partito a realizzarlo unitariamente. Gli anni in cui il PCI si impegnò sul terreno programmatico e la costruzione delle alleanze tra forze sociali e forze politiche, seguendo l’ ispirazione gramsciana “dell’egemonia” e del “blocco storico”. Di un partito della classe operaia che esprime la sua egemonia non solo con le alleanze tra operai delle fabbriche del nord e contadini del sud, ma con ceti medi delle città e delle campagne, con intellettuali, con le donne. Un partito che si misura coi nuovi movimenti, quello del 68 dei giovani, degli studenti, quello delle donne, quello “dell’autunno caldo degli operai”, coi movimenti pacifisti che si sviluppano negli anni della dura guerra del Vietnam. Gli anni, dopo la morte di Togliatti, della transizione, guidata da Longo segretario, con un nuovo gruppo dirigente che va da Berlinguer a Natta, da Amendola a Ingrao, da Paietta a Napolitano. Anni in cui, anche nei momenti più aspri della divisione, come in quella della costruzione di una nuova unità sociale e politica, il PCI segue le regole fissate nella Costituzione e propone riforme strutturali capaci di affermare i valori e gli obiettivi sanciti nella Carta Costituzionale. Questo è il “filo rosso” della storia del PCI. Seguendo la linea di Togliatti di “fare l’interesse del Partito facendo gli interessi generali”. Che nel 70 conquista Regioni e si afferma al governo delle tre “Regioni rosse”, di cui l’Umbria, e nel 75, ne conquisterà altre, oltre l’Umbria, Toscana, Emilia, dal Lazio al Piemonte alla Liguria. Il PCI esprime i sindaci delle grandi città, da Roma (Pretoselli) a Bologna (Zangheri), da Firenze (Gabbuggiani) a Torino(Novelli). Sono gli anni della strategia della tensione, delle bombe, delle stragi, a partire da Piazza Fontana a Milano, gli anni dei tentativi di colpo di Stato. Della reazione e dell’eversione nera, neofascista. Poi gli anni del terrorismo, delle “brigate rosse”: “gli anni piombo”. Proprio in quel decennio che si apre con la grande riforma dello Stato, con le Regioni. Il PCI a metà anni 70 raggiunge il suo massimo storico, nelle elezioni regionali del 75 e nelle politiche del 76. L’idea di Berlinguer, del “compromesso storico” trova uno sbocco nei “governi di solidarietà nazionale”. Quella solidarietà nazionale resa necessaria per rispondere alle grandi emergenze, da quella economica, esplosa con la crisi energetica del 73, in cui l’Italia andava a piedi, alla crisi politica, agli attacchi del terrorismo. Il PCI nelle elezioni del 76 per il Parlamento ottenne il 34,4% contro il 38,7% della DC. Per la prima volta nel Parlamento della Repubblica, dopo la Presidenza Terracini alla Costituente, un dirigente del PCI, Pietro Ingrao, viene eletto Presidente della Camera dei Deputati. Nasce il Governo monocolore DC sostenuto dai Partiti della solidarietà nazionale, con l’appoggio esterno del PCI. Sono gli anni di svolta anche a livello internazionale, con la fine della lunga guerra del Vietnam da una parte, col Golpe di Pinochet nel Cile, con l’assassinio di Allende. Gli anni dell’idea “dell’eurocomunismo”, della tensione tra il PCI e il PCUS, della scelta di Berlinguer di sentirsi protetto sotto “l’ombrello della NATO”: il mondo del 48/49 era cambiato ed era cambiata la posizione del PCI. Sino ad un giorno cruciale, drammatico: quel 16 marzo del 1978. Quando si realizzò l’accordo tra la DC di Moro e il PCI di Berlinguer. Quella mattina in cui Andreotti si doveva presentare alla Camera, per eleggere il nuovo governo sostenuto dal PCI, in cui le BR rapirono Moro, uccidendo i cinque uomini della scorta. Sino all’assassinio di Moro e il ritrovamento del suo corpo in via Caetani, tra Botteghe Oscure, sede del PCI, e Piazza del Gesù, sede della DC. Quell’evento tragico che segnò, con l’inizio di quel nuovo Governo di solidarietà e l’assassinio di Moro, non solo la fine di una stagione di un uomo del dialogo, ma della storia della “prima Repubblica”, che si esaurisce all’inizio degli anni novanta. Quando sono scomparsi, Moro e Berlinguer in quel comizio drammatico a Padova. La scomparsa non più degli uomini del dialogo ritrovato, dopo decenni di “muro contro muro”, ma la fine di una storia fatta dai grandi Partiti, dalla DC al PCI. Nelle elezioni politiche anticipate del 79 il PCI pagò sul piano elettorale il prezzo per quelle scelte. Si pose fine al governo di solidarietà nazionale. Che non si interruppe a livello istituzionale. Una donna, Nilde Iotti, del PCI, venne eletta Presidente della Camera, sostituendo Ingrao, la prima donna al massimo livello istituzionale e Sandro Pertini, fu il primo socialista ad essere eletto Presidente della Repubblica. Gli anni 80 poi della rottura a sinistra, con i Governi Craxi. La scomparsa di Berlinguer dopo il duro scontro sul decreto S.Valentino sulla scala mobile. La segreteria Natta, prima, poi quella Occhetto. E subito dopo la caduta del “muro di Berlino”, del novembre 1989, la “svolta della Bolognina” di Occhetto, che propose di sciogliere il PCI, cambiandone il nome. Una fase travagliata, sofferta. Quasi due anni di discussione nella base, oltre che nel gruppo dirigente comunista. In due congressi. Quello di Bologna, nel quale la mozione del segretario Occhetto, prevalse con il 67% e la mozione di Ingrao e Natta ottenne il 29,7%, contraria allo scioglimento del PCI. Dopo il congresso di Bologna del marzo 90, si svolse il Congresso di Rimini, il XX della storia del PCI, dal 30 gennaio al 3 febbraio. Ed a Rimini, con 807 delegati favorevoli, 75 contrari e 49 astenuti il PCI si sciolse dando vita, al Partito Democratico della Sinistra. Mentre una minoranza dette vita a Rifondazione Comunista. Si concludeva così la storia lunga 70 anni. Che proseguiva col PDS, il quale aderiva all’Internazionale Socialista. La stessa dove vi era il PSI di Bettino Craxi. Il PCI nato dalla scissione nel PSI, come sezione italiana dell’internazionale comunista dà luogo ad un nuovo partito, il PDS, che entra nell’Internazionale Socialista insieme al PSI. Non c’era più da anni l’internazionale comunista. Non c’è più l’Unione Sovietica. Non ci sono più quei paesi comunisti. Non c’è più il PCUS, nonostante il tentativo di democratizzazione, fatta da Gorbaciov. La “spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre che si era esaurita” negli anni 70, secondo la dichiarazione di Berlinguer, finisce dopo il crollo del muro di Berlino, con la bandiera rossa ammainata sul Kremlino si era esaurita da un bel po’ di tempo. Era cambiata l’Europa. Era cambiata l’Italia. Tutti i Partiti di Governo, che con la storia del PCI avevano fatto la storia dell’Italia, del novecento, protagonista dell’Italia Repubblicana, si sono sciolti subito dopo. All’inizio degli anni novanta finiscono in “tangentopoli”, dalla DC al PSI. Ma la fine politica era già segnata prima. Da quel momento inizia una nuova storia. Con la carta della geografia politica dell’Europa che è cambiata: non ci sono più i paesi del “socialismo reale”. Con la geografia politica dell’Italia che è cambiata: non c’è più da ventanni il PCI, né gli altri partiti, protagonisti di passaggi cruciali della nostra storia. Più che celebrare il 90° della costituzione o il 20° dello scioglimento del PCI dobbiamo leggere questa storia e riflettere criticamente su di essa. Perché la storia di questo Partito è tanta parte della storia d’Italia. E’ storia innanzitutto di tanti che per un ideale hanno sofferto, pagato anche con la vita. E’storia di grandi trasformazioni, di emancipazioni, di progressi, di conquiste ottenute spesso a prezzo di dure lotte e con la fatica di governare processi complessi. E’ la storia di operai e contadini, di intellettuali e di artigiani, che dopo dure giornate di lavoro, la sera si ritrovano in sezione del PCI a discutere dei loro problemi ed insieme ad affrontare i problemi degli altri, di tutti, del loro Comune, del nostro paese, del mondo. Lo facevano spinti da grandi ideali, da grandi valori, dalle condizioni poste dalla vita di ogni giorno. Un Partito con un sistema di informazione e formazione. Con un giornale come l’Unità fondato da Gramsci, diretto da dirigenti del PCI in stagioni diverse: da Ingrao a Pajetta, da Reichlin ad Alicata, da Macaluso a Ferrara. Con una rivista come Rinascita, settimanali, Vie Nuove, Nuova Generazione ecc. E con migliaia di militanti che la domenica diffondevano l’Unità casa per casa. Un partito che era tanta parte del sindacato, la CGIL, con segretari come Di Vittorio, Novella, Lama, Trentin e in associazioni delle diverse categorie, dalla CNA per gli artigiani,alla Alleanza Contadini, dalla Lega delle Cooperative alla Confesercenti, dall’UDI sino all’U.I.SP. per lo sport. Un partito che è stato punto di riferimento di intellettuali ed artisti: da Visconti a Guttuso, da Enauidi a Pasolini, da Pavese a Calvino, dalla Ginzuburg a Levi, da Garin a Marchesi, da Saba a Luzzi, da Scola a Sanguinetti, da Lizzani a Taviani, da Argan a Lombardo Radice Pontecorvo ecc. E’ la storia di una classe dirigente che quel Partito ha costruito in tanti anni. Quella che ha governato tanti enti locali o che in Parlamento ha legiferato per dare attuazione alla Costituzione, per rispondere alle tante attese, ai problemi che insorgevano. Significa leggere e riflettere su ciò che si è fatto, per capire quanto costano certe conquiste. Ma anche per riflettere su errori, su limiti, sulle contraddizioni. Tra l’essere quella sezione italiana di quella internazionale comunista e l’essere una grande forza , un grande Partito nazionale. Pensiamo solo a questo. Il PCI non c’è più da 20 anni. Ma oggi a Presidente della Repubblica Italiana c’è un dirigente di quel Partito. Si chiama Giorgio Napolitano. Non è una bella eccezione. Ci sono dirigenti dei partiti di oggi, parlamentari, Presidenti di regioni e Province, Sindaci che vengono da quella storia. Ministri della Repubblica che vengono dal PCI, che col PDS o i DS sono stati al Governo, con donne come Anna Finocchiaro e Livia Turco ed uomini come D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani Ci sarà una ragione! Così come c’è una ragione se i quaderni del carcere, gli scritti di Gramsci, sono letti in tutto il mondo. Il PCI non c’è più. Ma ha ancora un peso. Come lo ha avuto in vita. Perché le idee non muoiono. E la storia non si cancella. Una storia che è in mostra a Roma, a cura delle Fondazioni Gramsci e Cespe, presentata dai Presidenti Vacca e Reichlin. Una mostra che racconta appunto “il PCI nella storia d’Italia dal 21-91”. Dentro questa storia, sta quella del PCI in Umbria. Che nella nostra Regione è ancora di più storia dell’ Umbria. Un Partito che naturalmente anche in Umbria nasce dal Partito socialista. Socialisti che in Umbria già nel 19 avevano il 46% dei consensi, che nelle elezioni amministrative del 20, prima del fascismo, conquistarono la Provincia e 44 Comuni. Non c’era il suffragio universale, non votavano le donne. Ma quella era la forza dei socialisti. Che in percentuale, col suffragio universale, è quello che conquista il PCI negli anni 70. Il PCI infatti è nelle elezioni regionali del 1975 che conquista il 46,1% con 14 seggi su 30. Un PCI che in Umbria ottiene con 275 mila voti, il consenso di un cittadino su due, con una sinistra che supera il 60%. L’Umbria diventa una delle tre Regioni rosse. Il PCI passa dal 27,93% delle amministrative del ‘46 al 47,28% politiche del ‘76. Il PCI in Umbria, in trenta anni, dal 46 al 76 avanza di venti punti,votato prima da un cittadino su quattro, poi da un cittadino su due. Un Partito che conquista la Regione dopo un lungo lavoro. Si comincia con pochi iscritti. Il PCI dopo la Liberazione, nel 45, in Umbria ha 43500 iscritti, salendo intorno ai 45 mila iscritti negli anni 70, mantenendosi sopra le 40 mila unità sino agli anni 90. Un partito di massa, sul piano elettorale ed organizzativo. Che ha tra i suoi fondatori i primi eletti alla Costituente e al Parlamento della Repubblica, da Carlo Farini ad Armando Fedeli. Con altri parlamentari come Angelucci ed il Presidente della Provincia di Perugia, Gino Scaramucci. Quel nucleo di Comunisti umbri che partecipa ai due congressi che si svolgono a Roma, nel 24-25, che sostengono la tesi di Gramsci in polemica con Bordiga negli incontri a cui parteciparono Togliatti e Longo in preparazione del Congresso di Lione del 26, a Roma. Lo stesso gruppo dirigente passato per la dura lotta clandestina che partecipò il 3 settembre del 43 a Roma ad un incontro a casa D’Onofrio con Longo Scoccimarro ed Amendola, per discutere sull’organizzazione della lotta di Resistenza. Una forte presenza nella lotta antifascista, nella clandestinità. Su 181 umbri confinati dal fascismo tra il ’26 e il 43 ben 79 sono uomini del PCI, Tra i 4300 partigiani umbri che parteciparono alla Resistenza, tanti erano comunisti. A cominciare da quelli della Brigata Garibaldina Gramsci, che in combattimento perse 165 partigiani, tra cui un prete, Mons. Chiaretti. Comunista era Germinal Cimarelli, medaglia d’oro della Resistenza e Alfredo Filipponi comandate dalla Brigata Gramsci. Alla generazione eroica dei combattenti antifascisti, che costruì il Partiti nella clandestinità si aggiunse quella dei ventenni della Resistenza, che dirigeranno il PCI nei decenni successivi in Umbria: da Ilvano Rasimelli a Raffele Rossi, da Francesco Innamorati a Vinci Grossi a Settimio Gambuli. Un Partito che dopo la lotta antifascista e la Resistenza è protagonista della ricostruzione. Con la loro presenza forte ed unitaria nei Comitati di Liberazione (CLN). Con un diffuso insediamento delle fabbriche, a cominciare dalla Terni alle campagne. Operai e mezzadri sono la base di massa. Il PCI da un contributo fondamentale al successo del Referendum per la Repubblica: Terni è la settima delle Provincie italiane che votò per la Repubblica nel 46. Il PCI costruisce i movimenti unitari di massa, con le lotte nelle fabbriche e nelle campagne. Paga un duro prezzo nella lotta per la pace: il 17 marzo 49, Luigi Trastulli, giovane operaio comunista dell’Acciaieria di Terni viene colpito mortalmente, ed altri operai sono feriti dai poliziotti, mentre escono dai cancelli delle fabbriche, per una manifestazione per la pace, contro il patto Atlantico, il 17 marzo 49. Quando esplode la guerra fredda i comunisti sono discriminati, tanto che in anni successivi il Parlamento lo riconoscerà con legge: tra i 2700 licenziati del 52-53 alla Terni, la gran parte è scelto tra i lavoratori comunisti. Quella vicenda pesò a lungo: alla tragedia dei licenziamenti si accompagnò il dramma della discriminazione. Il PCI è alla testa di quel peculiare processo unitario che nel decennio degli anni 60 porta all’esperienza del Piano Umbro. Lo fa in Parlamento coi suoi deputati, a votare gli Odg unanime per l’Umbria, nel 60 e nel 66, con Ingrao Guidi ecc..lo fa partecipando alla programmazione regionale col DC Micheli e col socialista Fiorelli, con uomini come Ottaviani e Rasimelli, Bartolini e Maschiella, Corraddi ecc. un Partito che elabora un progetto per l’Umbria. Di quella Regione che Ruggero Grieco, nel 54 descrive così: “l’Umbria è vecchia. La sua economia è rimasta indietro di decenni. L’Umbria è povera. Io conosco le povertà delle Provincie meridionali, me ne intendo. Forse la povertà umbra è più chiusa e più vergognosa di se, ma è pur essa antica e Francesco di Bernardone ne fu un grande e amabile testimone. L’Umbria sta diventando un rudere, nelle cui fessure vivono gli uomini. Io amo le pietre dell’Umbria perché ne comprendo l’immenso linguaggio”. Più di tanti dati, le parole di un intellettuale e dirigente politico come Grieco, descrivono l’Umbria degli anni 50. E negli anni 60 il PCI umbro è alla testa del grande movimento per la riforma agraria, il superamento della mezzadria, per il “ruolo propulsivo delle industrie a Partecipazione Statale e per la Regione. Lo fa guidando masse di operai e contadini e lo fa con un’azione unitaria ed attraverso la direzione degli enti locali. Vincendo quelle battaglie dopo aver pagato duri prezzi, con la cacciata dei mezzadri e degli operai dalle terre e dalle fabbriche, così come la chiusura delle miniere. Nel 70 il PCI è al Governo della Regione. Il primo Presidente Pietro Conti è uno dei massimi dirigenti del PCI. Tutti Presidenti della Regione in questi 40 anni da Conti a Marri, da Mandarini a Carnieri, sino alle donne che la presiedono nel duemila, quando il PCI non c’è più: la Lorenzetti e Catiuscia Marini vengono dal PCI. Così in Parlamento. Non solo prima col PDS-DS, ma ora, in una storia, nuova diversa, col PD, in Parlamento ci sono donne e uomini che vengono dal PCI, da Marina Sereni, a Mauro Agostini, a Valter Verini. Ci sarà pure una ragione! La capacità non solo egemonica, ma di formare e selezionare una vera classe dirigente. Che prima si forma nei Comuni. Sindaci di estrazione sociale diversa, operai, contadini, intellettuali a capo dei Comuni Umbri a cominciare da quelli che hanno ricostruito le città distrutte dalla guerra, ai fondatori della Regione: da Ottaviani a Terni a Monterosso a Spoleto, Lazzaroni a Foligno, Bei a Gubbio. Da Pannacci e Nocchi di Castello a Torroni di Orvieto, da Secci, Sotgiu, Porrazzini a Terni, a Meoni al Trasimeno, da Marchino a Monteggabione e Pecorari a S Giustino, da Toscano a Spoleto a Stella, Costantini e Proietti a Narni, da Paci a Sangemini a Pinacoli a Gualdo Tadino, Capuccelli a Marsciano, Sonaglia a Umbertide, Neri Gubbio, a Matteucci a Polino, sino ai Sindaci del duemila, di Perugia e Terni, quando il PCI non c’è più, da Locchi e Boccali, da Raffaelli a Di Girolamo. Ed in Parlamento il PCI, come nei Comuni, eleggeva uomini delle fabbriche, come Fedeli, Alfio Caponi, Emilio Secci, delle campagne come Silvio Antonini e Mario Bartolini, intellettuali come Raffaele Rossi, Alberto Guidi, Ilvano Rasimelli, Vinci Grossi, Maschiella, Franco Giustinelli. E donne, da Cristina Papa ad Alba Scaramucci a Rita Lorenzetti alla Camera ed alla Regione, da Catia Bellillo ad Anna Lizzi a Marina Sereni, Nadia Antonini. Il Partito eleggeva alla Camera, per la direzione nazionale Pietro Ingrao, ed al Senato Luciano Lama. Un Partito che nonostante fosse di opposizione al Governo centrale, sapeva dialogare con i Ministri, coi Partiti di governo, per fare gli interessi generali. Così come sapeva dialogare con la Chiesa: basti ricordare il dialogo con alcuni Vescovi a cominciare da Santo Quadri. “Eravamo riformisti, quando eravamo comunisti” dirà Lello Rossi che con Gino Galli, Gambuli e Carnieri è stato segretario regionale del PCI. Un Partito che ha contribuito a cambiare l’Umbria, le condizioni di vita e di lavoro per masse e generazioni diverse. Che ha radicato la sua presenza in tutto il territorio umbro come forza organizzata, avendo le sezioni sotto ogni ciminiera e accanto ad ogni campanile. Ma perché era una grande comunità di persone che insieme discutevano, lavoravano, lottavano per il progresso e per i valori scritti nella Costituzione. Un Partito che ha assolto, con limiti e contraddizioni, ad una funzione nazionale e regionale. Quella costruita in mille e mille riunioni di militanti, in mille e mille assemblee di elettori, in mille e mille comizi di popolo, nelle cento assemblee delle istituzioni umbre, e in Parlamento, alla testa di lotte di masse popolari, nella formazione della classe dirigenti, nella guida dei Governi locali e Regionali. Una storia di un Partito protagonista del novecento. Che non c’è più da venti anni. La cui storia ha un peso, ancora oggi, nel duemila. Una storia che va conosciuta, letta, riflettuta, come parte della storia d’Italia e dell’Umbria, in questi 150° della sua unità.
il cannocchiale

mercoledì 22 dicembre 2010

IL GIOCO DELLE TRE CARTE 2 - di Valentino Filippetti



Il 20 dicembre ho assistito, dopo tanto tempo, al Consiglio Comunale d' Orvieto. Dopo diverse ore di audizione me ne sono andato con una certezza, la politica non abita piu’ lì.

Si doveva discutere un argomento forte, la proposta del consigliere Leoni (PdL) di istituire un Parco nella zona dei calanchi che ospita la discarica. Questo progetto è condiviso anche da altri consiglieri di orientamento politico diverso, come Germani(PD).

L’intenzione dei proponenti è di chiamare il consiglio ad esprimersi in modo chiaro su quale dovrà essere la politica dei rifiuti nei prossimi anni.

Da una parte la maggioranza del centro destra sostiene la necessità di riempire un nuovo calanco, proseguendo sulla strada intrapresa anni fa e dall’altra Leoni, Germani e altri consiglieri propongono un cambiamento radicale, che punti sulla raccolta differenziata e sul riciclo.

Mantenere la prima opzione vuol dire proseguire nell’occupazione del territorio , continuando a considerare la questioni rifiuti come un’attività economica da cui ricavare profitti piuttosto che un servizio.

Imboccare la seconda strada vuol dire realizzare, innanzi tutto, una rivoluzione culturale che spinga i cittadini a fare i conti con uno sviluppo consumistico che ci stà portando verso la catastrofe.

( E come sappiamo che la gestione delle catastrofi ormai è diventata una delle attività piu’ redditizie e speculative).

Il consiglio è stato preceduto da mesi di dibattito, da diversi rinvii e da un’intensa campagna del “Comitato Rifiuti Zero” che hanno rotto la tradizionale apatia degli Orvietani.

Il Sindaco Concina si è presentato con un “Documentino” acqua e sapone che non diceva niente.

Infatti il dibattito lo ha ignorato completamente e si è polarizzato su terzo calanco si, terzo calanco no. In mezzo il solito terreno paludoso in cui si muovono, apparentemente a loro agio, i trasfughi del centro sinistra e il neo segretario del PD. La loro parola d’ordine è rinvio ed alla fine la spuntano, anche perché il Sindaco fremeva perchè doveva andare a sentire Sgarbi ( che come si sa è piu’ importanre della discarica ). Ma c’è stato il tempo per un altro siparietto, messo su da Olimpieri che ha chiesto lumi su chi sia il capogruppo del PD. Prontamente il Presidente del Consiglio Frizza ha dato la linea : se non decide nessuno entro il 27 deciderà lui, per il piu’ anziano del PD.

Non cercate cosa ha detto Mariani. Era già sfinito per aver chiesto la sospensione del dibattito sulla discarica.

Politica Zero.

Del resto così doveva finire. Il lungo ciclo politico del Faraone era nato con la discarica. Il mio voto contro il primo conferimento extra bacino fu inutile sul finire degli anni ottanta. Come l'impegno serio e ricgoroso di Conticelli negli anni novanta. Era il tempo della giunta degli uomini e delle donne, quella che mise fine alla politica, dove contavano le “persone”. Il "maggioritario" con uomini soli al comando senza piu' controlli ne politici ne amministrativi.

Quel ciclo si è consolidato e poi è affondato con la discarica. Oggi la destra cerca di raccogliere il testimone e rinverdire i fasti della “monnezza”.

Non ha capito che un’epoca e finita, che il mondo è andato avanti e soprattutto che gli Orvietani hanno scoperto il giochino.

Sarà dura superare questo momento, perchè c’è una parte rilevante della Destra che è impegnata a dare continuità all’azione di governo della giunta Mocio ( e non solo per pagare le cambiali elettorali) mentre una parte dell’opposizione è impegnata a sostenere Concina.

Intanto i problemi marciscono.

Il PD sembra non aver ascoltato il campanello di allarme suonato da Germani con le dimissioni.

Ma presto sentirà le campane, se non cambia strada.

La cittadinanza è stanca dei giochi delle tre carte.

martedì 7 dicembre 2010

DIREZIONE PD ORVIETO: MARIANI TENTA DI RECUPERARE, FA PROPRIO IL DOCUMENTO DELL'OPPOSIZIONE INTERNA

Riunione scoppiettante della Direzione Comunale del PD di Orvieto che si ritrovava per la seconda volta, dopo il congresso, per la definizione degli organismi interni.

La prima riunione si era chiusa con un nulla di fatto perchè l'opposizione interna l'aveva disertata, accusando Mariani di non rispettare gli accordi pre congressuali. Ieri sera invece questa componente, che rappresenta il 50 % del partito, si è presentata con un documento firmato da Fausto Galanello, Giuseppe Germani, Cristina Croce, Andrea Scopetti, Umberto Fringuello, Massimo Stella, Donatella Belcapo, Maio Tiberi e Adriana Bugnini.

Il documento è una sintesi di quello approvato nei congressi dei circoli ma sottolinea l'esigenza di una maggiore autonomia del PD di Orvieto sia dal sistema politico-istituzionale nazionale che regionale.

Questa proposta ha raccolto un ampio consenso, tranne Marino Capoccia, Lamberto Custodi e Pierpaolo Vincenzi , che hanno espresso una forte contrarietà.

Come previsto sia la segreteria che la direzione è stata composta solo da sostenitori di Mariani, mentre l'opposizione interna è rimasta volutamente fuori.

Di seguito il testo integrale del documento :


Costruire la fiducia nel futuro, lavorare per rilanciare lo sviluppo e la qualità della vita a Orvieto.


Il lavoro che Bersani ed il Pd stanno facendo indica ciò che possiamo diventare: il grande partito riformista che i cittadini italiani vogliono ma ancora non hanno, la forza capace di unire il paese e il suo territorio e di portarlo nel XXI secolo, energia civile per arricchire la nostra democrazia, il fermento di una nuova cittadinanza.

A livello nazionale e cittadino, oggi, ci troviamo in una situazione molto difficile sia dal punto di vista amministrativo che di indirizzo politico. La società attuale, e con essa quella orvietana, è caratterizzata da un immobilismo disarmante, da una totale incapacità ad affrontare i problemi reali della società e da una dannosa mentalità distruttiva concentrata soltanto a disconoscere l’operato dei precedenti governi. La precarietà estremizzata, la disoccupazione e l’inoccupazione, il buio attraverso il quale i giovani intraprendono il loro percorso di studi e la totale mancanza di assistenza da parte delle Istituzioni descrivono il nostro Paese e le nostre città che, dati alla mano, scendono mese dopo mese nelle graduatorie europee. La qualità della vita, fiore all’occhiello dell’Italia di fine novecento, oggi risente pesantemente delle scelte politiche ed economiche della classe dirigente: stato sociale maltrattato, sanità ed istruzione in degrado, politiche ambientali inesistenti, crisi della vita urbana, privatizzazione del volontariato; la coesione sociale che ha tenuto unita la società italiana è a rischio. Il Partito Democratico deve farsi avanti e accollarsi la responsabilità della ricostruzione, deve comunicare ai cittadini che è finalmente un partito maturo e capace di guidare il pese e questa città verso giorni migliori.

La nostra città sta diventando la periferia di se stessa.

Il ruolo naturale di punto baricentrico dell’Italia centro-occidentale va via via indebolendosi a favore di un allontanamento sempre più marcato dalle dinamiche economiche, politiche e socio-culturali di questo territorio, ricco di identità, storia e occasioni da saper cogliere per far fronte alle nuove sfide federaliste e commerciali.

Emerge sempre di piu’ un aggregato conservatore e passivo, caratterizzato da rendite e privilegi che, inseguendo continue mediazioni al ribasso, di fatto, si oppone a ogni cambiamento in campo economico, sociale, civile e persino religioso.

Queste forze si sono sviluppate anche grazie alla mancanza di obiettivi e modelli di sviluppo che la politica non è stata in grado di indicare e ad una gestione amministrativa incapace di invertire la rotta che ha portato verso la crisi dell’intero sistema.

L’impianto economico basato sullo sviluppo sproporzionato dell’edilizia privata e delle attività estrattive, che ha caratterizzato il nostro territorio, ha favorito il formarsi di veri e propri monopoli in settori decisivi come quello viti-vinicolo, la progressiva deresponsabilizzazione delle banche per le sorti dell’economia locale e la svendita di tutti gli asset forti della città a partire dalla discarica.


Con questa eredità e su questa realtà siamo chiamati a rimetterci al lavoro, capaci della necessaria autocritica ma al tempo stesso coscienti di rappresentare una parte decisiva della società orvietana.

La parola d’ordine è AUTONOMIA.

Autonomia dal sistema politico istituzionale nazionale e regionale.

Autonomia dai condizionamenti delle forze economiche e dei “poteri forti”.

Ciò non significa solitudine ma, anzi, ricerca di nuova credibilità, autorevolezza e capacità di progettazione, di proposta e di innovazione attraverso le quali promuovere un’azione dal basso che inverta i processi decisionali di natura centralistica e ci permetta di tornare a confrontarci, con forza e dignità, in ambito provinciale, regionale e nazionale.

Il fallimento dell’attuale Giunta non è soltanto amministrativo, sancito dalle difficoltà a chiudere il bilancio 2010, ma soprattutto politico – istituzionale.

Le evidenti perplessità con cui abbiamo giudicato il tentativo del governo cittadino di chiudere il bilancio di quest’anno, viste le premesse quantomeno azzardate con le quali si è arrivati ad oggi (parcheggi, mattatoio, ex Piave …), ci spingono ad affermare che è giunto il momento di cambiare rotta, attraverso le dimissioni di questa amministrazione, per dare ad orvieto una guida rinnovata ed adeguata.


Per aprire un nuovo corso ci vuole un partito democratico diverso da quello che abbiamo conosciuto negli ultimi anni, pieno di ambiguità e doppiezze.

Nel congresso che si è svolto recentemente abbiamo approvato una proposta basata su tre principi guida:

- Unità

- Responsabilità

- Condivisione

Partendo da queste basi si può ricostruire la ricandidatura del partito democratico alla guida della città.

Per rendere credibile quest'obbiettivo abbiamo detto di lavorare in tre direzioni:


1.

Costruire un partito aperto alle forze migliori della città.
2.

Costruire una piattaforma politico programmatica capace di risanare i conti e creare nuove occasioni di sviluppo.
3.

Ricostruire un rapporto serio e costruttivo con la parte sana e produttiva della città e con le forze politiche del nuovo Ulivo.

Per questo riteniamo non più rinviabile l’apertura del Partito Democratico alle migliori qualità umane ed intellettuali che questa città esprime. Di pari passo proponiamo una conferenza programmatica, da tenersi entro il mese di gennaio, preparata con un confronto nei nostri circoli, con le altre forze del centro sinistra e con le forze economiche e sociali, che permetta al PD di arrivare a fare delle scelte chiare e decise e mettere in campo proposte credibili per la nuova sfida al governo della Città.



Orvieto, 6 dicembre 2010

mercoledì 8 settembre 2010

Per un nuovo modello di sviluppo:una proposta per le tlc - di Luigi Agostini e Alessandro Genovesi

“Quando un paese grande ma povero quale era la Russia, si trovò a dover affrontare la sfida per entrare tra le 7-8 potenze del novecento – una sfida produttiva, sociale e ancor prima politica – scelse con lungimiranza di legare il proprio destino alla più amplia opera di infrastrutturazione delle campagne mai vista prima: l’elettrificazione rappresentò la base del successo pluridecennale del comunismo”. Così è iniziata la ormai “storica” lezione tenuta all’università di Bombay nel 2001 da William N. Joy (comunemente conosciuto come Bill Joy), il "Thomas Edison di Internet" , democratico “moderato” scelto come esperto dall’amministrazione Clinton.

“Sulla base di tecnologie moderne ed avanzate – continua Joy, citando integralmente il discorso di Lenin al Soviet di Pietroburgo - l'elettrificazione (...) fornirà un collegamento tra città e campagna, porrà fine alla divisione tra città e campagna, renderà possibile elevare il livello della cultura in campagna e di superare, anche negli angoli più remoti della terra, l'arretratezza, l'ignoranza, la povertà, le malattie e la barbarie. Oggi la costruzione di reti telematiche di nuova generazione (NGN) rappresenta la novella elettrificazione: crea ,politicamente,blocchi di interessi progressisti, attiva innovazione diffusa, valorizza le professionalità scientifiche e organizzative, genera partecipazione “creativa” in grado di contaminare l’intero apparato produttivo aumentandone il valore anche indipendentemente dalle condizioni geografiche, costruisce la base materiale di una nuova dimensione della cittadinanza e dei diritti globali. Un ecosistema pervaso dalle reti NGN è un sistema aperto, interattivo, multidirezionale, che mette in moto mobilità sociale e una più avanzata divisione del lavoro. Chi ne rimarrà fuori sarà costretto ad inseguire per i prossimi decenni”.
Inoltre,nella attuale crisi da sovrapproduzione,permette di impostare il tema del nuovo modello di sviluppo.
Le reti di Telecomunicazione possono rappresentare infatti la base per un grande progetto di riconversione dei nostri sistemi che la crisi attuale ha dimostrato “obsoleti”, aggregando intorno ad un grande progetto di modernizzazione forze economiche e sociali, interessi e intelligenze progressiste oggi disperse e prive di interlocuzione.

Il dibattito in Europa e nei paesi più avanzati negli ultimi anni, del resto, verte proprio sulle capacità dei sistemi-paese (e in primo luogo delle grandi aziende di tlc) di dotarsi di una nuova rete ad alta velocità nel minor tempo possibile, garantendo da un lato concorrenza sui nuovi mercati, dall’altro investimenti ed interventi atti ad accelerare tanto la costituzione dell’offerta (le nuove reti appunto) quanto di una domanda diffusa, facilitando cosi lo sviluppo di un terziario avanzato fatto di contenuti, servizi amministrativi, sociali e per la produzione che integrerà sempre di più funzioni private e pubbliche (PP.AA., telesanità, telemobilità, interventi ambientali, formazione a distanza, e-commerce, ecc.).La riforma e l’efficienza degli apparati pubblici,l’esperienza insegna,la si fa in gran parte per questa via,e non attraverso le ridicole campagne di Brunetta. Le stesse “manovre anticrisi” varate nel 2010 dai governi inglese, francese, tedesco e spagnolo non solo non hanno ridotto gli investimenti nel settore, ma li hanno potenziati proprio come risposta anticiclica alle difficoltà del momento .

Solo in Italia il confronto politico e sindacale sull’aumento o meno delle capacità produttive delle imprese non si sviluppa su questo terreno, ma si incentra quasi esclusivamente sul contributo che può dare il fattore lavoro (da ultimo la stessa vicenda Fiat si può leggere anche con questa lente), quando invece tutti i principali studi dell’OCSE, della Banca Centrale Europea e del FMI ricordano che “le potenzialità dell’innovazione tecnologica, l’aumento di conoscenza diffusa, la stessa velocità e potenza trasmissiva delle nuove reti siano di gran lunga fattori più incidenti ”.

Discutere e decidere sul futuro delle reti di TLC è quindi un tutt’uno con la necessità che avvenga “un’esplosione di innovazione”. E’ una delle principali sfide, anche culturali e politiche, che abbiamo di fronte. E occorre prima di tutto che il tema acquisti nel nostro paese la centralità che merita, affrontando nodi mai veramente sciolti negli ultimi anni. In Italia essi si possono riassumere, fondamentalmente, in quattro questioni, tra loro legate: come costruire,con un determinante intervento pubblico, la NGN italiana in termini remunerativi per chi vi investe; come alimentare una domanda di nuovi servizi che ci “educhi” all’innovazione; come rilanciare una “filiera” dell’ICT per non essere meri consumatori di produzioni straniere; come far uscire Telecom Italia – la principale azienda del settore e l’unica dotata di un infrastruttura propria – dallo stallo in cui è.

Senza dare una soluzione contestuale a queste questioni, il rischio è che continui l’attuale fase di paralisi del settore delle TLC e dell’ICT e che le diverse proposte in campo (sia di Telecom da un lato, sia degli altri operatori dall’altro) si riducano a mere tattiche di contenimento e di “sbarramento” degli uni verso gli altri,di una vera e propria neutralizzazione reciproca. (al riguardo si veda anche l’ultima Relazione Annuale dell’Autorità per le Comunicazioni - AGCOM).

Occorre decidere non se, ma come, rispondere a queste domande:
1) Quali risorse , quali investimenti per creare la rete di nuova generazione (evoluzione naturale dell’attuale rete in rame e da integrare fortemente con le reti mobili di ultima generazione), in un momento di scarsità delle risorse pubbliche (quelle poche stanziate sono state già riassorbite in altri capitoli di spesa), di difficoltà della più grande azienda privata (Telecom Italia) e dei suoi principali concorrenti? All’interno di quale quadro regolatorio tenere insieme un determinante sostegno pubblico, remunerazione degli investimenti, trasparenza e concorrenza, valorizzando le risorse di tutti? La direzione politica nazionale deve prendere atto che oggi le aziende delle TLC e dell’ICT in Italia non sono in grado di sviluppare da sole quella massa di investimenti necessari a dotare il paese di una delle infrastrutture strategiche per il futuro e non può lasciare alla pur lodevole iniziative degli enti locali una partita così importante. Inoltre le attuali rete in rame stanno giungendo ad un livello prossimo alla saturazione.
2) Quale percorso possibile si può mettere in campo già nei prossimi mesi per generare una iniziale domanda diffusa per la NGN, che ci educhi anche all’innovazione, a nuovi paradigmi e modi di fare e di essere cittadini, produttori e consumatori?
3) Come si può (e si deve) tenere insieme un piano per la NGN, la costituzione di una domanda iniziale diffusa e il rilancio di un’industria italiana dell’ICT, oggi sempre più schiacciata da economie di scala ridotte e un mercato dell’innovazione asfittico?
4) Come superare l’empasse debitorio e proprietario in Telecom Italia, che da tempo condanna la principale azienda di TLC a non proporre un piano industriale in grado di rilanciare il mercato?

Ci piaccia o no infatti, con riferimento a questo ultimo punto, a più di un decennio di distanza, dobbiamo dichiarare che la privatizzazione di Telecom Italia, per come si è realizzata, è stata un fallimento. Un’azienda con oltre 120 mila dipendenti, una capacità di investimento superiore a 10 miliardi di euro l’anno, senza debiti e con una forte concentrazione di competenze è oggi un’azienda profondamente in crisi, con meno di 56 mila lavoratori, priva di una strategia in grado di risolvere il problema dell’eccessivo debito e degli attuali assetti proprietari, sparita quasi completamente dai mercati esteri emergenti.

Soprattutto è un’azienda non più capace di essere “il motore dell’innovazione”, che blocca l’intero sistema e ne paralizza le scelte strategiche (e non migliore è il panorama nel resto del settore: le aziende Telco più o meno forti affacciatesi sul mercato italiano negli ultimi anni si sono progressivamente svuotate di professionalità ed il loro finire tutte in mani straniere ci consegna un saldo negativo, per gli interessi del Paese).

Per questo oggi più di ieri il futuro delle TLC è indissolubilmente legato a quello di Telecom Italia. E il futuro di Telecom passa dal risolvere la principale contraddizione che tutti abbiamo di fronte: da un lato la rete Telecom rappresenta un’infrastruttura strategica per il Paese, necessaria per fare la rete di nuova generazione (NGN) con la graduale sostituzione di rame e centrali e per accelerare la migrazione dei clienti sulle nuove tecnologie. Un “bene comune” nell’accezione più ampia. Ma dall’altro siamo tutti ben consapevoli che una valorizzazione dell’attuale rete Telecom, fuori dal perimetro dell’azienda, rischia di impattare con il valore stesso dell’azienda, la sua governance, i suoi fatturati e farebbe venir meno quell’integrazione verticale tra settori (a partire dall’informatica e dai costumer) che - oltre a contraccolpi occupazionali - priverebbe Telecom della possibilità di riposizionarsi su servizi personalizzati, sull’offerta di soluzioni informatiche e ICT convergenti, ecc. Pensare – anche come management di Telecom Italia – di sciogliere questo nodo al di fuori di una più ampia discussione sul futuro delle TLC e dell’ICT nel Paese è quindi impossibile.


COSTRUIRE L’OFFERTA: UN PIANO PER LA NGN ITALIANA

Partiamo, allora, da quello che – piaccia o no – non si può fare (per motivi industriali, tecnologici, economici, politici e sociali). Non si può espropriare Telecom della sua rete. Non si può concepire la rete di nuova generazione come esclusivamente subordinata all’evolversi del mercato televisivo, in quanto la rete è volano di più settori, più integrazioni, più convergenze (non si può cioè pensare al futuro della rete Telecom come risposta “truccata” alla sfida Mediaset-Rai-SKY o come mero strumento subordinato alle dinamiche del mercato pubblicitario on line). Non si può pensare alla NGN come una rete esclusivamente tutta in fibra. Non si può realmente credere che l’eventuale nuova società costituita da Vodafone, Fastweb, Wind e Tiscali senza finanziamenti pubblici e senza un’integrazione con Telecom Italia, si possa cimentare in una competizione sull’infrastruttura oltre alcune e specifiche aree metropolitane a forte valore di mercato.

Quindi passiamo a quello che non possiamo permetterci che accada. Non si può accettare il calo degli investimenti e dei ricavi in un settore strategico, motore principale dell’economia della conoscenza. Non si può accettare la paralisi del settore che sta trascinando in un baratro la già non eccelsa realtà dell’informatica italiana (o meglio di quello che vi rimane). Non possiamo perdere tempo prezioso rispetto ai paesi concorrenti dell’Italia che già sono avanti nella costruzione della NGN e che divengono sempre più competitivi e attrattivi di investimenti (soprattutto quando la crisi internazionale sarà finita).Il tempo sta’ scadendo,se non scaduto. Occorre un vero e proprio “Patto per il futuro del Paese”, un “Patto per l’ICT” che coinvolga tutti, ognuno per le proprie responsabilità e poteri. Il Paese deve darsi una scadenza (un vero e proprio “switch off” per la banda ultra larga): entro il 2015 l’ 80% della popolazione italiana e delle imprese deve essere dotato di banda ultra larga e il restante 20% di banda larga.
E sarebbe assai utile – oltre che giusto – che di questa bandiera si impossessassero le forze del centro sinistra, costruendovi intorno alleanze sociali e di interessi, aprendo la discussione e chiamando a raccolta le tante intelligenze, professionalità, imprese e lavoratori sicuramente interessati ad una forte proposta di innovazione industriale.

Solo una “scelta politica” può infatti creare le condizioni per una “dotazione di risorse pubbliche e private” straordinarie, da agevolare con interventi regolatori e con scelte di priorità chiare.

Il Governo e Agcom, per rendere remunerativi gli investimenti sulle reti di nuova generazione, dovrebbe stabilire il prima possibile un percorso di liberalizzazione graduale delle tariffe all’ingrosso per la connessione alla NGN. O in alternativa riconoscere un chiaro sistema di “risk premium” per gli investimenti, definendo i prezzi minimi regolamentati per l’accesso alle reti di nuova generazione, indipendentemente dalle modalità di realizzazione (se in consorzio, se in competizione infrastrutturale, ecc.). Agcom deve cioè definire presto le tabelle di remunerazione minima di passaggio per tutte le infrastrutture di nuova generazione che vanno dal primo stadio di centrale (dorsale) fino alle centrali periferiche, agli armadietti e alla singola abitazione/azienda (tariffe minime per fiber to building, tariffe minime per fiber to home). Così che tutti possano pianificare gli investimenti e soprattutto, a fronte di una spesa e un rendimento minimo correlato, ricorrere a strumenti finanziari, creditizi e azionari per reperire risorse.
Un vincolo/cofinanziamento pubblico dovrebbe inoltre garantire da subito una “tariffa a prezzo simbolico/franchigia” a tutti i servizi offerti dalle pubbliche amministrazioni, per le reti civiche, per i soggetti del privato sociale (anche al fine di agevolare la costruzione di una domanda diffusa, così come già si va sperimentando con successo in Olanda e Germania). Tale principio di liberalizzazione dovrebbe essere riconosciuto a tutti i soggetti pubblici o privati che siano titolari della nuova rete, a condizione, infine, che si facciano garanti anche proquota di estendere la rete alle aree identificate da AGCOM come aree non di interesse di mercato .
Insomma intervento pubblico diretto (in partecipazione) o indiretto (messa a bando) senza tabù ideologici, liberalizzazione graduale in cambio della riduzione del digital divide, remunerazione degli investimenti privati con prezzi a liberalizzazione graduale (all’inizio più alti) a fronte di uno stimolo generalizzato all’aumento della domanda che faccia diminuire nel tempo le tariffe all’ingrosso. Da subito si potrebbero “scongelare” le risorse già disponibili (800 milioni presso il CIPE, 264 presso Infratel, 188 milioni a disposizioni della aree rurali) e si potrebbero coordinare i piani e le risorse regionali messe in campo (per altri 2 miliardi già stanziati).

Così come vanno stabiliti (in sede governativa e di AGCOM) meccanismi per far contribuire alla manutenzione/implementazioni delle reti i diversi produttori di contenuti/pubblicità che oggi, con l’aumento della domanda (peer to peer, on demand, motori di ricerca, ecc.) stanno portando alla saturazione della rete, senza però contribuire direttamente o indirettamente al suo potenziamento. Se cioè da un lato occorre che le aziende di TLC per reperire risorse devono assolutamente differenziare offerte e tecnologie, dall’altro occorre definire modalità di compartecipazione alla manutenzione/implementazione delle reti da parte di coloro che godono (trasferendo spesso valore all’estero) della connettività, non escludendo in una prima fase (con attenzione e con ponderazione, differenziando tra servizi di lusso, servizi a consumo generalizzato, servizi di utilità sociale) prezzi che permettano la condivisione del rischio tra investitori e utilizzatori.

Ovviamente la NGN non dovrà per forza essere completamente in fibra in tutte le sue parti ne inizialmente in tutti i territori: la nuova rete sarà inevitabilmente integrata da un potenziamento delle capacità trasmissive delle reti mobili grazie all’utilizzo di maggiore ampiezza di banda e agli apparati di ultima generazione. La NGN sarà nei fatti una rete basata sulla convergenza di più reti trasmissive (del resto l’omogeneizzazione del protocollo IP segna già questa incontrovertibile direzione di marcia) anche perché sempre più l’utilizzo della banda ad alta velocità – a detta dei principali esperti – sarà every where e con utenti nomadi.


AGGREGARE LA DOMANDA: UNO SFORZO COLLETTIVO

Ma l’eventuale offerta di per sé non basta. Il “Patto per l’innovazione del Paese”, va declinato anche dal lato della domanda. Oggi essa è insufficiente per le capacità della NGN e la costante, ma lenta, diffusione della tv on demand non basta. Occorre sviluppare una strategia di aggregazione generalizzata della possibile “domanda”: pubbliche amministrazioni, enti locali, sistemi sanitari, bancari, ecc. devono essere coordinati da una regia pubblica per l’aggregazione delle possibili domande, al fine di rendere profittevoli già nel breve periodo gli investimenti degli operatori ICT. Serve anche qui una vera e propria “cabina di regia”, un “Comitato nazionale per lo sviluppo della domanda di nuovi servizi” che coordini in maniera efficiente quanto già esiste (o è in programma, a partire da quanto annunciato dal Ministero per la Funzione Pubblica e l’Innovazione e dal Ministero per le Attività produttive) e dia un impulso deciso a chi “è in ritardo” .
Uno switch off parallelo, se vogliamo semplificare, che già di per sé rappresenterebbe una rivoluzione culturale per il paese. Tale “Comitato” dovrebbe assorbire e sfoltire la miriade di gruppi di lavoro, comitatini, tavoli ministeriali, facendosi carico anche di coordinare tutte le azioni oggi disperse (pubbliche e private) a sostegno di: maggior penetrazione dei PC nelle famiglie italiane; alfabetizzazione informatica; diffusione della moneta elettronica come ordinaria modalità di pagamento di beni e servizi.

Infine accanto alle autostrade vanno pensate le “automobili made in Italy”. La scomposizione prima e la crisi poi delle grandi aziende informatiche (Olivetti, Bull, Getronics – oggi Agile/Eutelia - Accenture, Ibm) hanno portato alla crisi di un comparto strategico, fondamentale per integrare le strategie di convergenza e sviluppo delle aziende industriali e di tlc. Per troppo tempo si è assimilata una visione delle imprese di ICT esclusivamente finalizzata alla erogazione e alla “manutenzione” di prodotti informatici, VAS e terminali esteri, facendo venire meno una strategia generale del sistema paese che - solo dalla costruzione di Poli tecnologici, informatici e di tlc - può ricominciare a perseguire una propria politica industriale per l’innovazione degli apparati produttivi. Occorre approfittare allora della riorganizzazione del settore per un grande progetto di politica industriale che tenga insieme tutta la ICT, avendo come interlocuzione l’intero mondo delle imprese: un grande piano per l’ICT italiano, in grado di valorizzare le professionalità presenti nelle diverse aziende oggi in crisi, rilanciando così anche una più generale politica per la ricerca applicata alle nuove soluzioni tecnologiche e organizzative. Non è una strategia diversa da quella per le TLC e la NGN, ma il suo naturale complemento, ritagliata sulle esigenze e specificità dei nostri sistemi sociali ed economici. Serve una proposta industriale per tutta la filiera: anche perché, altrimenti, la prospettiva anche occupazionale dell’attuale settore delle TLC sarà quella di un trascinamento verso il “basso”, più verso i call center che non verso la parte avanzata della ricerca e dello sviluppo IT. Senza un’industria dell’innovazione forte che accompagni la creazione delle reti di nuova generazione, che le renda “multi applicabile” per utilizzare un linguaggio caro agli informatici, rischiamo infatti il fallimento di ogni possibile modernizzazione dell’apparato produttivo, creando una “NGN” vuota o dove altri producono ciò che dovrà passare.

IL NODO TELECOM ITALIA
Infine va affrontato il nodo “Telecom”: la recente vertenza iniziata con oltre sette mila licenziamenti annunciati e poi conclusasi positivamente i primi giorni di Agosto con un’intesa tra azienda, sindacati e Governo (e molto rimane da fare nella “gestione concreta” dell’accordo) ha indicato una possibile direzione di marcia con uno dei più grandi progetti di riconversione professionale di figure tecniche e operaie (saranno almeno 4000 mila i lavoratori coinvolti) verso i nuovi servizi e le nuove tecnologie di comunicazione e di “digitalizzazione” degli ambienti umani (casa e impresa). Ma è stata, per quanto avanzata, una risposta difensiva, finalizzata a salvaguardare occupazione e possibilità di sviluppo. Quel che è mancato e manca è una risposta industriale e finanziaria (cioè un progetto a medio termine) che metta in sicurezza l’azienda, così da dare il suo fondamentale e necessario contributo al “Patto per il futuro dell’ICT”. La principale azienda del Paese (per numero di lavoratori, per professionalità possedute, per investimenti fatti e programmati) deve poter uscire dallo stallo in cui è e tornare ad essere “la lepre da inseguire”.

Occorre affrontare il tema del debito e di una ricapitalizzazione dell’azienda. Occorre sciogliere il nodo di Telefonica. In relazione alla situazione debitoria di Telecom, l’unica strada, facilitata anche dalla proposta di remunerazione delle nuove reti, non può che essere o una ricapitalizzazione da parte degli attuali soci o l’emissione di uno specifico bond a garanzia pluriennale (10-15 miliardi) tale da mettere l’azienda nelle condizioni, per i prossimi anni, di raddoppiare gli investimenti sul mercato domestico ed internazionale. Bond aperto a tutti i soggetti pubblici e privati che sarebbero garantiti oltre che dai notevoli flussi di cassa e dai beni patrimoniali anche dai ritorni dei nuovi investimenti sulla NGN. Lo stesso Bond potrebbe essere coperto pro-quota per quella parte destinata specificatamente alla costruzione della rete di nuova generazione.
Se lasciata libera di operare nel medio termine su aree a forte remunerazione, con patti chiari di medio periodo, diviene infatti meno importante e delicata la discussione sul ruolo di Telefonica o di un altro grande operatore straniero dalla forte vocazione industriale: quello che infatti dovrebbe contare per il sistema Paese (e per i lavoratori di Telecom) è evitare che una paralisi permanente dell’azienda la porti ad essere – prima che poi – una facile preda per chi non ha interesse ad investire in Italia.


In conclusione, il progetto tlc può qualificare una sinistra politica e sociale moderna, e rappresentare la bandiera di un nuovo modello di sviluppo. Per parafrasare lo stesso Lenin citato da Bill Joy, se il socialismo era simbolizzato, all’inizi del secolo scorso,dalla parola d’ordine di “soviet ed elettrificazione”, oggi un moderno socialismo non potrebbe essere definito meglio che dalla parola d’ordine “autogoverno e reti telematiche .”Per tutti.


Roma 4 settembre 2010

venerdì 27 agosto 2010

BEPPE CIVATI - «L'antiberlusconismo non porta lontano» - di Alessandro Braga

Giuseppe Civati è consigliere regionale del Pd in Lombardia. Trentacinque anni. Alle ultime primarie appoggiò Ignazio Marino.



Tre giorni fa la lettera al paese di Veltroni sul Corriere. Ieri Bersani su Repubblica. Siamo alla politica epistolare?Non vorrei che questa mania «alla Jacopo Ortis» sia il segnale di un centrosinistra che si scrive perché non si sa parlare. Mentre i nostri si mettono davanti a carta, penna e calamaio altri, come la Lega, occupano le prime pagine dei giornali con le loro iniziative fatte di razzismo e populismo. Dovremmo essere noi a riempire i giornali perché siamo tornati ad essere un partito vivo, con una chiara identità e iniziative importanti per il paese. Senza diventare sostenitore dell'uno e dell'altro, mi sembra che la lettera di Veltroni abbia uno sfondo politico culturale più profondo, mentre quella di Bersani è più politichese, per addetti ai lavori.



Ma nella sostanza, che giudizio dai alla proposta Bersani?Mi pare che Bersani si dica disponibile a costituire un governo tecnico e, in caso di elezioni anticipate, un vasto schieramento democratico per fermare Berlusconi. Parla di nuovo Ulivo e di addio all'Unione ma non si capisce quale sia il vecchio Ulivo, quale il nuovo. Mi pare che si sia fermi all'antiberlusconismo, accusa che proprio Bersani aveva fatto ai suoi avversari interni. Un'alleanza con chi dice no a Berlusconi presuppone l'assunzione del concetto che la sua presenza sia definitiva nel panorama politico. Cosa che abbiamo già fatto in passato ma che non porta buoni frutti. Invece...



Invece?Dovremmo dire quale Italia vogliamo e poi portare avanti quell'idea con chi ci sta.



Che Italia vuole il Pd di Civati?Intanto dobbiamo indicare come rimettere in pista il paese. Generare aspettative di rinnovamento. Rilanciare la nostra idea su questioni fondamentali.



Quali?Dobbiamo proporre un vero programma economico, in questo momento di crisi. E avere il coraggio di dire chi deve pagare il conto. La finanziaria di Tremonti sta colpendo i ceti medio-bassi. Noi dovremmo dire qualcosa sulle transazioni finanziarie e i grandi patrimoni, ad esempio. E poi dire come vogliamo investire i tanti o pochi soldi che abbiamo. Puntando ad aiutare i giovani con una vera politica sulla casa, combattendo il precariato che al massimo può essere una fase per l'inserimento nel mondo del lavoro, ma la prospettiva deve essere di avere un lavoro come lo hanno avuto i nostri genitori. Altrimenti quando saremo noi i genitori come faremo? E poi punterei sui diritti civili.



Con chi?Con chi ci sta. Darei per scontato in un progetto del genere l'appoggio di Vendola e Di Pietro. Ma dobbiamo essere capaci di dialogare anche con altri. Però attenzione, va bene allearsi anche con il diavolo per sconfiggere Berlusconi, ma bisogna ottenere risultati, altrimenti è inutile.



Anche utilizzando «forme più articolate di convergenza», come dice Bersani? Cosa vuol dire, una riedizione della desistenza?Non è chiaro: si parla di un accordo con chi ci sta. Ma non credo sia una nuova desistenza, più che altro la vedo come un accordo su alcuni punti di fondo.



Sulla legge elettorale si potrebbe trovare questo accordo?Sì, ma non aspetterei le elezioni. Portiamo una proposta in parlamento ora, troviamo un accordo anche con Fini e Casini e chiediamo di votare la nostra proposta. Alla camera si potrebbe mettere sotto il governo in questo modo.



Ma quale proposta? Che tipo di legge elettorale?Una legge che ridia dignità al parlamento. Se non si trova nulla di meglio potrebbe andare bene anche il Mattarellum. E poi il centrosinistra deve puntare sulle primarie, riavvicinarsi alla gente.



Il porta a porta di Bersani?Quella è una buona idea. Bersani dice che è arrivato il tempo di suonare le nostre campane. Io mi accontento dei campanelli.

giovedì 8 luglio 2010

Superconti Spa, stato di agitazione e blocco degli straordinari

La protesta decisa da Rsa e sindacati dopo la rottura del tavolo sul contratto integrativo


I lavoratori di Superconti Spa di Terni entrano in stato di agitazione e avviano da oggi, mercoledì 7 luglio, il blocco degli straordinari. La protesta, sostenuta oltre che dalle Rsa di Superconti, da Filcams Cgil, Uiltucs Uil e Fisascati Cisl di Terni, scatta dopo la rottura delle trattative per il rinnovo del contratto integrativo aziendale, scaduto da tre anni e sul quale l'azienda ha mostrato “una totale chiusura, negando qualsiasi riconoscimento ai lavoratori e respingendo tutte le proposte della piattaforma sindacale”.
In particolare sindacati e Rsa sottolineano la delicatezza di alcune questioni poste nella piattaforma e sulle quali l'azienda non ha accettato alcuna mediazione: tra queste c'è prima di tutto il mancato accordo sul lavoro domenicale (in violazione, sottolineano i sindacati, di quanto previsto dal contratto nazionale) e sulla richiesta di una maggiorazione dignitosa per i lavoratori e le lavoratrici che si impegnano per pochi euro nel lavoro festivo. Filcams, Fisascat e Uiltucs di Terni sottolineano infatti che “attualmente le maggiorazioni per i lavoratori di Superconti (che tra l'altro ha sei punti vendita tutti nel centro cittadino e può quindi effettuare tutte le aperture domenicali che desidera) sono di gran lunga le più basse rispetto agli altri contratti integrativi del commercio e della distribuzione cooperativa siglati nel territorio provinciale”. Altra questione centrale posta dai sindacati è quella dell'organizzazione del lavoro per i tanti dipendenti part-time (che rappresentano la maggior parte della forza lavoro in azienda), per i quali, dicono le tre sigle, “attualmente il premio di produzione è inesistente”.
“Pur essendo consapevoli della situazione di crisi globale che investe il territorio, anche se – sottolineano i sindacati e le Rsa – Superconti non ha ancora mai portato alcun dato contabile che possa in qualche modo giustificare il suo atteggiamento di chiusura totale, giudichiamo inaccettabile e incomprensibile la volontà di non pervenire ad alcuna mediazione per riconoscere ai lavoratori lo straordinario impegno profuso negli ultimi anni e lo spirito di forte fidelizzazione all'azienda che li caratterizza”.
Confermando dunque l'apertura dello stato di agitazione, sindacati e Rsa annunciano che nei prossimi giorni verrà convocata un'assemblea di tutto il personale per decidere come portare avanti la mobilitazione a difesa dei diritti dei lavoratori.

martedì 29 giugno 2010

Politica e cultura: quali speranze? Mario Tronti e il vescovo di Orvieto-Todi Giovanni Scanavino a dialogo

Un filosofo “marxista” e un vescovo. Più precisamente, uno dei più originali pensatori “radicali” italiani - capace di tenere assieme il barbuto di Treviri e Carl Schmitt, Lenin e Max Weber, i gesuiti spagnoli e Machiavelli – e un frate, presule nella diocesi di Orvieto-TODI, votato ad Agostino di Tagaste, il santo africano ritenuto uno dei massimi pensatori del mondo occidentale.
Stiamo parlando di Mario Tronti e di padre Giovanni Scanavino, messi l’uno accanto all’altro, dalle ore 21.00 di giovedì 1 luglio, alla Festa Democratica di Orvieto.
La riflessione su “Politica e cultura: quali speranze”, coordinata da Giuseppe Della Fina, vuole anzitutto essere un invito a liberare il pensiero dagli ingombranti imballaggi che impediscono l’esercizio della trascendenza, quella virtù specificatamente umana che interpone tra uomo e mondo una differenza, uno stacco dentro cui abita lo spirito, la cultura, l’arte, la politica. Al centro del dialogo, la riflessione del filosofo sugli esiti terminali di una modernità che non contempla il controtempo della trascendenza.
“L’homo religiosus – afferma Tronti sorprendendo qualche nostalgico mangiapreti - ha una potenzialità di alternativa, e di antagonismo, rispetto alla struttura fondante di questo mondo, che l’homo democraticus non ha e non può avere, perché è stato costruito affinché non l’avesse”. I primi cristiani, precisa l’autore di “Operai e Capitale”, riuscirono a mantenere una radicale alterità rispetto al mondo pur senza diventare estranei al mondo. Vinsero perché durarono. E durano perché, come si dice nel Vangelo di Giovanni, erano “nel” mondo ma non “del” mondo.
Tronti vede nella riduzione del mondo a pura immanenza il trionfo dello spirito borghese illuminato. Quello stesso spirito, che ancor oggi governa il processo della modernizzazione, vieta il conflitto, l’audacia della trasformazione radicale e istruisce il pensiero politico delle società postindustriali. Il mondo è pieno, non ammette crepe o alterità radicali. “Il massimo ammissibile del conflitto – afferma il filosofo - è la provvisoria personalizzazione di quel qualcuno, nella parte del’cattivo’”. Dentro la categoria del conflitto Tronti rilegge la vicenda della classe operaia novecentesca. “Gli operai dentro il capitale - scrive - sono stati l’ultimo anello, quello giunto a più alta coscienza, della lunga catena degli oppressi. Ai lavoratori di oggi bisogna riconsegnare questa coscienza, di essere un ulteriore anello della catena”.
L’annientamento del conflitto, dell’irriducibile alterità non segna solo la fine della classe operaia ma anche della politica. “Più la politica si assimila al mondo - sottolinea Tronti -, a ciò che è così com’è, più diventa superflua”. Bisogna allora guardare alla religione, a quel rapporto con l’Invisibile che rende la persona “indisponibile, inassimilabile, incatturabile per una coscienza dominante di mondo che ti dice: è tutto qui, non c’è altro, quello che conta è quello che vedi, devi sistemarti, o devi partecipare, che è la stessa cosa”. In quell’indisponibilità si scorgono i bagliori dell’atto di libertà, dell’autodeterminazione anche collettiva.
È quindi un errore – sostiene il professore senese – declinare la laicità in chiave antireligiosa. “La laicità di cui abbiamo bisogno – prosegue - è più una interpretazione del sacro che un’assunzione del secolo. Su questo possiamo trovare un vero reciproco ascolto con altre sensibilità alternative. Credetemi, c’è più varietà di posizioni e libertà di pensiero in quella ‘complexio oppositorum’ che è la Chiesa cattolica, di quanto ne potete trovare nel pensiero unico del Fondo monetario internazionale. Non sbagliamo bersaglio. Il nemico, il nemico non l’avversario, è questo, non quella. Più in generale, sulla denuncia dei mali del mondo e sul destino dell’essere umano, tra la dimensione del politico e la dimensione del religioso coltiverei oggi più la possibilità di un incontro strategico che l’occasione di un conflitto quotidiano”.
Dopo l’estinguersi di innumerevoli terze vie, sarà forse la resistenza al secolo della Chiesa ad offrire alla sinistra un modello di politica all’altezza dei tempi?