lunedì 17 novembre 2008

DEMOCRATICI DI NOME E DI FATTO. Per un partito ad identità forte. di Valerio Marinelli

Per Democrazia s’intende da un lato un tipo di iter decisionale, certi meccanismi istituzionali, determinati rapporti fra poteri e reale esercizio delle quote di Sovranità legalmente affidata al Popolo, ma la Democrazia è anche di più. Per un democratico la Democrazia è un movimento utopico teso a rimuovere ogni causa d’impedimento allo sviluppo della libertà personale o collettiva; la Democrazia è uno sforzo costante volto ad eliminare i motivi delle disuguaglianze, delle disparità e delle ingiustizie sociali. La Politica per un democratico non è mai il fine, ma il mezzo per rendere giorno dopo giorno il proprio mondo più giusto, equo e libero. Questo rappresenta il fine etico dell’impegno democratico, che pretende, per sua stessa originaria natura, l’eticità dei mezzi per realizzarsi.
La Democrazia, in tale accezione, diventa un complesso di valori, che, in quanto non appartenenti ad una dimensione materiale già esperibile, s’inverano nella realtà solo attraverso una pluralità di fini concreti da raggiungere. Ecco perché la Democrazia è un insieme di dinamiche e comportamenti complessi e delicati. Ecco perché essere democratici attiene ad un modo ben preciso di interpretare il reale. Il Partito Democratico, allora, è concepibile soltanto come luogo cognitivo di questa premessa; è lo strumento d’analisi della società e, allo stesso tempo, la tecnologia d’intervento.
La società in cui viviamo è composta da bisogni e desideri. A soddisfare i desideri, spesso identificabili in mode costruite con l’abilità del marketing, ci pensa il mercato e l’ideologia liberista che lo accompagna, ma per soddisfare i bisogni serve una capacità d’analisi e soluzione che il PD, nato a tale precipuo scopo, non può attardarsi a trovare.
Il ritardo della sinistra, infatti, a mio avviso, è in primo luogo metodologico, non mediatico. Se quanto detto nelle righe qui sopra è davvero considerabile una spina dorsale identitaria del PD, è evidente che manca ancora una sistematizzazione metodologica del lavoro, la quale è un fattore d’estraneamento identitario di non poco conto. Il PD deve partire dall’analisi dei bisogni e far corrispondere ad ognuno di questi una libertà. Il PD diventa il partito di lotta per l’ emancipazione umana, un partito che punta a rendere le persone più uguali perché solo così possono essere più libere. Riuscire a tradurre questi concetti in funzione del progetto politico, veicolare un’idea alta della Politica nella società, disegnare una nuova rotta di lungo periodo non risulta soltanto utile a mero fine elettorale. E’ probabilmente un elemento di senso capace di ravvivare e scuotere il depresso interesse per la “questione pubblica”, per la Politica, che perde fiducia tra le persone finendo con l’impastoiarsi da sola, per il rapporto istituzioni- cittadini, i quali, dalle statistiche sempre più sfiduciati, rischiano una sorta d’alienante frustrazione nel concepirsi soggetti subordinati ed inadeguati all’interazione con le prime.
A fronte dei processi di “coriandolizzazione” della società, cosciente anche delle nuove problematiche esistenziali sopravvenute nel terzo millennio, dello scadimento del concetto di Progresso e di Futuro a connotazione collettiva, il PD ha bisogno di tener ferma la sua privilegiata interlocuzione con il cittadino e la persona umana. Con il cittadino per implementare e sostenere tutte le politiche in grado di rafforzare la cittadinanza, di cui si avverte lo sgretolarsi in proporzione alla crisi dello Stato nazionale e della Democrazia su di lui plasmata; con la persona umana in quanto perno di un benessere fondato sull’esercitabilità dei diritti. Va da sé, però, che la chiave di lettura della contemporaneità è l’individuo. Esso deve rimanere perciò il termine culturalmente caratterizzante anche dell’azione e della logica politica, che, per essere pienamente esaustiva e coinvolgente ha bisogno di declinarsi dal globale al locale: tenere unite plurime dimensioni geografiche, politiche, economiche e sociali deve rappresentare la cifra dell’ambizione ideale di un PD che lavora per un mondo migliore, per un paese migliore, per una città migliore….
Sembra quindi quasi scontato e pleonastico ribadire come il PD non possa cavalcare, in nessun modo, una cultura di stampo “economicista”, che comporterebbe, semmai, il rafforzamento di quel processo per il quale il cittadino diviene consumatore e l’utente si trasforma in cliente.
La difficoltà sta nell’operare da democratici in un contesto postdemocratico, sta nell’attivare politiche complesse per una società complessa. Ancora una volta risulta indispensabile impegnarsi in prima istanza su strumenti e metodi. D’altra parte, è ormai ampiamente riconosciuta la sovrapposizione significante tra mezzo e messaggio.
A sinistra, prima di una nuova narrazione, serve un telaio che la componga. Serve, in estrema sintesi, superare del Novecento la sua retorica, che pare imbrigliare il nostro slancio democratico, corrompendolo spesso in acritico “nuovismo”. Presentare un sogno agli elettori è già per noi una sconfitta. Più che altro abbiamo la necessità di raccontare una storia, una storia diversa per forme e contenuti. Non si può dire alla gente quello che si vuol sentir dire; non si può inseguire il consenso. Occorre invece costruirlo ponendo in campo un’alternativa culturale oltre che politica.
Oggi non basta condividere dei contenuti: è fondamentale socializzarli. E’necessario che il PD assuma il ruolo di “facilitatore di processi”, superando la classica funzione dei partiti di mediazione e composizione d’interessi particolari confliggenti. Le odierne tecnologie possono contribuire in maniera non indifferente alla configurazione di una nuova intelaiatura narrativa ed una nuova retorica che passi da un coinvolgimento diretto e spontaneo del soggetto interessato, qualunque esso sia, rappresentante di se stesso o di qual si voglia gruppo inserito nella società civile del contesto di riferimento. D’altro canto, però, i migliori media sono e restano le persone.
Una politica d’avanguardia non segue a ruota la società, ma la anticipa e la indirizza. Siamo nell’epoca dei “produmers”: i consumatori dei contenuti sono gli stessi che li elaborano.
Edificando sulla scorta di queste esperienze silenziosamente “rivoluzionarie” un impianto politico definito, pratico e teorico, il PD lucida due principi di fondo della propria etica di base: Partecipazione e Trasparenza. Ora, infatti, possono essere rivisitati e resi più efficienti da un percorso narrativo che reperisce il suo intrinseco senso nelle modalità in cui si estrinseca, modalità pubbliche e fortemente visibili, nonché collettive poiché effettivamente partecipate. Si abbandona la logica D.A.D ( decidi, annuncia, difendi), a favore di un processo maggiormente “deliberativo”( in senso anglosassone) che pone la politica in preliminare funzione d’ascolto, piuttosto che d’oracolo. E’ ovvio, però, che le mete, gli obiettivi, la gestione organizzativa e la direzione politica dei processi decisionali devono rimanere ben salda nelle mani del corpo del partito e dei suoi organismi dirigenti strutturati nel territorio, i quali non hanno da rinunciare a svolgere anche il compito di selezione della classe dirigente politica ed amministrativa. Accanto a ciò, la palese crisi della Sovranità e della rappresentanza attuale ci conduce, di conseguenza, all’esigenza di riflettere pure sui meccanismi di rafforzamento di una rappresentatività non più inquadrabile con gli schemi di una mentalità politica ormai da consegnare alla storia.
Un partito espressione delle griglie interpretative sopra descritte e dei moduli procedurali menzionati, da un lato recupera, dall’altro supera il modello partito-società, nell’obiettivo particolare di allontanare i pericoli di un’affermazione sistemica totalizzante dei modelli di “cartel-party” alla Katz e Mayer. Il partito- società è quel partito nel quale le contraddizioni della società prima si riflettono e poi si risolvono. E’ un tipo di partito che registra la propria fondamentale funzione nel rappresentare all’interno le componenti di conflittualità reali, e produrre, attraverso un percorso d’elaborazione, confronto e condivisione, un output armonico e sintetico. L’attenzione, a volte incongruente ed esagerata, del PD ad includere soggettività esterne operanti nella società civile è stata sostanzialmente dettata da questa logica, determinando però un procedimento di soluzione e sintesi comunque post conflitto, o, ancor peggio, rinunciando a trovare soluzioni post rappresentazioni( che soluzione, che linea politica hanno trovato Colanninno- Boccuzzi?). Il PD, invece, deve trovare il coraggio, in coerenza con le novità ed i bisogni politico-espressivi della realtà presente, di ribaltare la prospettiva. Infatti, socializzare i contenuti sin dalla loro formazione, piuttosto che condividerli una volta delineati, premiando la partecipazione diretta, spontanea ed unilaterale di tutti i soggetti interessati, crea le condizioni per risolvere le conflittualità, in atto o in potenza, ex ante. Se è pur vero che il processo può essere all’inizio più lento, complicato e farraginoso, è anche vero che successivamente il Partito Democratico avrebbe la spinta giusta per viaggiare spedito con un blocco di consenso già coagulato e fidelizzato che, data la sua natura plurale, ha maggiori possibilità di eccitare “rumore” ed ampliare il coinvolgimento generale nell’ambito contestuale. Inoltre, si lascia così al partito un più robusto margine di spazi e tempi per applicare nella pratica politica progettuale e programmatica le decisioni assunte, chiaramente legate ad un sostrato identitario ormai manifesto, stabile, ma non statico.
Per essere schietti, la narrazione democratica non può che essere sinergica e corale, ma è evidente che sia decisivo guidarla ad una meta con un veicolo ed un’andatura scelta da chi ha la patente. Mai come in questi anni si ha bisogno di veri e bravi politici! Insomma, bisogna rinnovare la cornice culturale e comunicativa degli ultimi tempi, improntata ad immagine e somiglianza di una varietà di tipi di destre che sono avanzate pressoché in tutta Europa. Il centrosinistra si è drammaticamente adattato a frames cognitivi non propri. E’giunto il momento di rialzarsi da una minorità culturale che magari in Italia non è strutturale, ma è di certo tangibile perlomeno dagli anni Ottanta.
Uscire da questo status presuppone saper porre coppie o filiere concettuali diverse ed alternativi accostamenti di temi e questioni socialmente e politicamente rilevanti. Semplificando ed esemplificando, la Sicurezza non è accostabile alla legalità, bensì alla solidarietà sociale. La sinistra, credo, sia da lungo consapevole di quanto la nostra società sia in via di disgregazione. Il PD è ormai ben cosciente del ruolo della comunità per l’integrazione e dei processi d’estraneamento individuali di fronte a paesaggi sociali non più riconoscibili.
Il welfare è da unire allo sviluppo, non più o non solo a politiche di solidarietà assistenzialistica. Il welfare contemporaneo si dovrebbe calibrare sulle potenzialità e sui talenti dell’individuo per esaltarne le capacità; bisogna immaginare un welfare che badi agli interessi del singolo e alla razionalizzazione di costi e risorse da mettere a disposizione. Un welfare volano di sviluppo, che trova la sua ragion d’essere nel far decollare le potenzialità di ognuno, contribuendo così ad innalzare la qualità della vita di tutti. Inoltre, quello Stato sociale alleato dell’economia tramite il collante della politica è acqua passata, come lontani ricordi sono le politiche socialdemocratiche tradizionali: con una crescita di P.I.L. del 4-5% tali politiche non erano solo possibili, erano auspicabili, ma in epoca di contrazione, stagnazione o addirittura recessione economica è imprescindibile sperimentare nuove ricette.
Proseguendo in rapidi esempi, la cultura va invece avvicinata al lavoro e alla formazione, non solo al turismo o alla tutela dei beni artistici. Per il PD la cultura deve essere trattata da una parte come valore in sè, dall’altro quale mezzo locomotore per dirigersi verso quell’Economia della Conoscenza di cui tanto si conciona e poco si conclude.
Alla Legalità è opportuno congiungere i temi dei Diritti ( specchio dei Doveri) e della Laicità, strettamente correlati alle declinazioni individuali contemporanee, mentre sulla questione ambientale occorre innestare un ragionamento esteso in merito a nuove fonti energetiche e mercato, insistendo sul perseguimento di un benessere sociale diffuso attraverso regimi di concorrenza, in grado di produrre reale convenienza al cittadino \ utente o, non sottostando alle iniquità degli oligopoli, ipotizzare una “decrescita sostenibile”. Parlare di sviluppo nel 2008 senza chiarirne l’accezione non è una scelta saggia. Lo sviluppo per lo sviluppo, cioè lo “sviluppismo”, ha via via creato più danni che opportunità: ha contribuito a generare insicurezza ed ha aumentato le distanze mondiali tra fasce ricche e fasce povere della popolazione.
Ho voluto riportare solo qualche esempio riassuntivo e banalizzato, per descrivere la mancanza d’alternatività reale della proposta politica di centrosinistra fino ad oggi ascoltata, aggravata da lacune metodologiche retorico- narrative di sensibile rilievo. Per sottolineare la necessità di costituire una cornice culturale democratica, iniziare a dipingere al suo interno con i nostri colori.
Il PD già sussurra molte di queste cose con i toni giusti: alziamo l’audio per farci ascoltare da quegli italiani ancora in balia delle loro illusioni o storditi da convinzioni ormai infrante.
Raccontare “un’altra storia”non è indipendente dall’analisi dei conflitti vigenti nella società, perché sono in parte questi che occorre calmierare per mezzo di risposte sia di breve sia di lungo periodo. Il vecchio Pci vedeva nel disvelamento della verità nuda e cruda gli elementi della presa di coscienza delle masse, e della propulsione rivoluzionaria. Da qui l’impegno neorealista nel cinema e nell’arte ( fonte narrativa primigenia) in generale. Il tentativo, tra l’altro sconfitto, messo in piedi dai comunisti si sosteneva sulla lettura e l’interpretazione di un conflitto dialettico tra classi e sull’azione di un partito di massa. A differenza del passato, oggi non si pone quale oggetto di riflessione il governo del potenziale rivoluzionario, ma in continuità con la storia si afferma la necessità d’adeguata lettura dei nuovi conflitti in una società senza le classi di stampo otto-novecentesco, falsamente de-ideologizzata e priva di partiti di massa che fungono da punti di riferimento culturali. Come all’epoca, la sinistra si continua però a chiedere come emancipare gli uomini, costruendo una società più libera ed uguale dove conflitti vecchi e nuovi, strutturali e sovrastrutturali abbandonano il campo ad una nuova “concordia”, intesa secondo l’etimologia latina. Concordia viene da cor-cordis che significa riscontrare nella comunità un cuore che batte all’unisono per il bene comune.
Ai nostri giorni le conflittualità più pericolose, urgenti da mitigare e dalle quali serve recuperare il potenziale di concordia sono due: una inerente al rapporto centro \ periferia ed un’altra riguardante le fratture generazionali legate a sfere di attività ed interesse.
Per quanto riguarda la prima è decisivo diffondere nella società attuale l’idea che il mondo interconnesso e globalizzato è incompatibile con l’anacronistica idea di provincia e di provincialismo, per cui ogni luogo ha oggi le proprie chances di sviluppo e progresso. Tanti sono i motivi che hanno portato a spazzare via questa definizione. Motivi economici, socio-culturali e conseguentemente cognitivi, ma non vi è certo spazio e modo di approfondirli in questa sede.
Di sicuro il conflitto centro \ periferia è un conflitto che va risolto prima che deflagri in becere derive e populiste vulgate come già pare si stia avviando. Questo è sostanzialmente il tipo di conflitto che ha reso vincente la Lega e che ha sostituito il vecchio conflitto assiale destra \ sinistra. E’ comunque un conflitto tra chi considera alcune fasce della popolazione “più uguali di altre”. L’esacerbarsi di tale agone poteva rendere più debole solo e soltanto la sinistra, come infatti è avvenuto nella misura in cui questa non è stata in grado di fornire risposte consone.
Veicolare la fine del concetto di provincia e provincialismo è un passo in avanti, ma non basta. Serve far emergere, da un lato, che se la periferia ( che concerne le città ed è cosa ben distinta, sebbene concettualmente per certi versi contigua alla provincia) è identificata con emarginazione e degrado, è altrettanto e spesso vero che esistono zone di degrado e sacche di preoccupante emarginazione pure in quella parte di città che è definita “centro”. L’obiettivo ultimo è di creare “centro” in ogni periferia, agendo sui piani urbanistici e stimolando la verve comunitaria. Ogni zona di città va trattata per le peculiarità che presenta, ma nessuna può essere più peculiare di altre. I centri storici vanno vissuti e non vanno resi meri percorsi di passeggio per ammirare costose vetrine nel fine settimana, mentre le cosiddette zone periferiche, oltre ai luoghi d’aggregazione, devono essere incentivate ad uno spirito d’auto-iniziativa, legata a doppio filo con la costruzione identitaria della micro comunità d’appartenenza. Questo è chiaramente funzionale a far riappropriare del territorio chi lo abita e lo vive, indistintamente da razza, sesso, religione o colore della pelle. La questione scotta e si interseca con un’ insicurezza che non potrà mai essere risolta da un maggior numero di vigilantes, se i primi controllori del territorio si sentono da esso distanti ed estraniati. La sfida per le amministrazioni locali di centrosinistra è integrare le città proponendo di queste un modello olistico, capace di valorizzare il tutto prima delle singole parti di cui è composto. Le città hanno forte bisogno di momenti ed occasioni, oltre che di spazi fisici dove aggregarsi, ritrovarsi, progettarsi o semplicemente godere di quello che è stato messo a disposizione sia come servizio che come struttura. In molti casi gli spazi esistono, ma le occasioni mancano.
Le città, infatti, risentono in maniera pregnante i cambiamenti epocali di spazio \ tempo intervenuti con la globalizzaizone. La velocità con cui corre il tempo non dà più alla città modo di stratificare l’identità, moltiplicando le incertezze individuali e lo spaesamento collettivo dovuto alla trasformazione di un territorio in rapida e costante mutazione. Non riconoscendosi più tra cittadini di una comunità ben precisa e definita, gli abitanti delle città contemporanee rischiano di disamorarsi del luogo in cui molto spesso sono nati e cresciuti, mentre i nuovi arrivati non trovano un contesto concreto in cui inserirsi, relegandosi frequentemente fra genti di medesima provenienza. Le fratture sociali possono quindi divenire fratture in merito alla collocazione e alla fruibilità urbanistica, fratture rispetto all’accesso a servizi o possibilità di sviluppo: sarebbe il collasso. Le “guerre tra poveri” aumenterebbero esponenzialmente e la “concordia”finirebbe con l’essere un sogno dimenticato.
Inoltre, il superamento del concetto di città di provincia e la riduzione del conflitto centro \ periferia riuscirebbe, forse, ad impedire una competizione piuttosto vana tra città che si considerano di serie A e città dello stesso comprensorio geografico che ambiscono, invece, ad essere annoverate nella massima serie. Semmai si dovesse distinguere o classificare le città, i parametri da prendere in considerazione non possono certo essere univoci, ma, sarebbe quanto meno preferibile una competizione di base imperniata sui servizi sociali, sulle politiche d’integrazione, sulle politiche delle pari opportunità e della tutela della salute delle donne, sulle politiche d’invecchiamento attivo etc. Politiche, insomma, che mirano a valorizzare la persona umana od il cittadino, prima di investimenti di altro genere. E’ su queste che serve in maniera prioritaria puntare all’eccellenza.

In un’epoca in cui il mondo va più veloce degli uomini, gli scarti e le distanze generazionali aumentano d’intensità rispetto al passato. Il rapporto padri- figli ed in specie nipoti-nonni della generazione precedente già vantava enormi distanze, ma la realtà allora in rapida trasformazione sembrava orientarsi secondo le volontà umane. Pareva che l’umanità avesse il controllo della situazione, comprese abominevoli degenerazioni ( vedi arsenali nucleari). Con la globalizzazione il mondo ha accelerato a dismisura i suoi tempi, tanto da sfumare il concetto d’epoca ( vedi la sovrapproduzione di “post”), mentre i cittadini che lo abitano non credono più che la loro volontà, in veste di potere, riesca ad indicare il cammino collettivo. Le generazioni più anziane tendono ad acquietarsi in una sorta di rassegnazione per l’impotenza, sopportando sulla loro pelle un disagio mai vissuto da altre generazioni in questi termini: gli anziani d’oggi non riconoscono più la realtà in cui vivono, sia in senso fisico che cognitivo. Non sono i cambiamenti infrastrutturali di una città a creare disagio, bensì la scomparsa di molti suoi luoghi emotivi, cognitivi e inerenti alla socialità quotidiana; disturba vedere che non ci sono più le persone che popolavano il tuo ambiente una volta, comprese quelle che non conoscevi; mutano, quindi luoghi e meta-luoghi. La tecnologia, lo sviluppo digitale ed il resto non fanno che alimentare il senso di smarrimento esistenziale. Proprio l’avvento del digitale è stato un motore d’incolmabili distanze generazionali, divenute quasi abissi cognitivi. Infatti, se dall’inizio alla fine del secolo scorso il mondo aveva comunque cambiato forme e colori, la logica delle generazioni che lo hanno attraversato era rimasta pressoché la medesima: una classica logica argomentativa. Avanzati studi contemporanei di psicologia e sociologia, confermano che i giovani del nuovo secolo hanno abbandonato la vecchia logica argomentativa per una logica cosiddetta digitale. Il modo di pensare delle persone, ovviamente, si articola secondo il tipo di realtà che hanno dinanzi e secondo gli strumenti di comprensione messi disposizione al momento contingente, incidendo così in maniera pregnante sulle mentalità. Per riuscire a categorizzare l’esistente, insomma, e ridurre la complessità del mondo serve una logica d’indagine adeguata, che ai nostri giorni non è più quella argomentativa, quella dei nostri padri, quella della scrittura e dei passaggi teorico-dimostrativi progressivi. Le distanze intergenerazionali, quindi, sono ben più profonde e complesse.
Indirizzi politici nazionali, europei o regionali risulterebbero come sempre molto utili, sebbene la questione possa essere dipanata e consonamente affrontata solo nei livelli più locali. E’ decisivo impegnare risorse nell’integrazione dell’anziano nel paradigma collettivo, con la consapevolezza che le politiche per l’invecchiamento attivo non corrispondono certo all’implementazione di strutture d’assistenza tout court, ma si fanno forti di molteplici interazioni anche di più soggetti pubblici e privati nel ruolo di valorizzazione di competenze ancora utili e spendibili nel contesto sociale di riferimento. L’anziano d’oggi, in estrema sintesi, non è solo quello che ha bisogno di un ospizio efficiente; esiste una fascia d’anziani non più attivi ma attivabili, che rischiano di rimanere bloccati in un ambiente fisico, sociale e culturale che non conoscono o non riconoscono più.
Le giovani generazioni, invece, sempre più si concentrano, tra mille dubbi, difficoltà e frustrazioni, a realizzare il proprio percorso personale, tralasciando l’aspetto dell’impegno sociale e collettivo, specialmente in termini d’impegno politico. D’altra parte è la prima generazione che cresce sapendo che la politica di questi tempi è un’arma spuntata. La sfiducia nella politica e nelle istituzioni conduce i nostri giovani a rinchiudersi in un ambito privatistico al limite del solipsista. Il compito della politica e del Partito Democratico è trovare una strada che accompagni gli sforzi personali ad uscire da anguste mura e convergere su un terreno di progresso collettivo. Ciò è possibile solo attraverso una rete di senso che connetta le spinte produttive ed innovative generazionali con il contesto sociale e comunitario in cui i giovani del terzo millennio sono inseriti. Al proposito, scoprire un rapporto strategico tra “centri della conoscenza” e territorio non è certo una novità . Infatti, lo sviluppo futuro sarà e potrà essere soltanto molto più territorializzato di quello che è stato in questi anni, e le ricadute delle competenze individuali, l’importanza dei “centri della conoscenza” nel territorio saranno il volano non tanto o non solo della crescita, quanto sicuramente del benessere.
La competitività in ambito locale va quindi stimolata in tal senso, pena il rischio di non avere più competitività nel prossimo futuro.
Se la politica e le amministrazioni contribuissero a riconfigurare un ruolo ed una funzione collettiva a giovani generazioni in palese affanno, favorirebbero, con ogni probabilità, anche un rinnovato dialogo generazionale. D’altro canto, è da sempre lo steccato dell’ incomunicabilità a spronare chiusure mentali ed intolleranze socio-culturali. E’ovvio che quanto detto in questa sede sia un tratto quasi infinitesimale dei problemi di fondo richiamati, ma penso che la politica dei piccoli passi sia oggi l’unica che riesca ad arrivare da qualche parte.
La scarsità sempre più preoccupante di risorse dell’erario pubblico, la crisi finanziaria globale, la stagnazione e l’imminente recessione economica, unita ai venti di federalismo fiscale, pongono necessario il ripensamento degli iter di decision-making e problem-solving, soprattutto per quel che concerne l’attività delle amministrazioni locali. I classici interventi amministrativi, validi per lo Stato come per le amministrazioni regionali, provinciali e comunali, si sono da sempre rifatti quasi ed esclusivamente ad un tipico approccio di government , centrato essenzialmente sul ruolo dei soli attori pubblici ed impostato su una dinamica prettamente top-down. Ma “il ricorso a logiche di government è apparso accettabile fino a che il carico fiscale è risultato sopportabile e la spesa pubblica non è uscita da parametri d’equilibrio. Nel momento in cui l’indebitamento pubblico è diventato incontrollabile ed il peso del fisco superiore ai limiti di tollerabilità, i soli meccanismi di government si sono rivelati inadeguati”( Segatori 2007). In effetti, ipotizzare di sovvenzionare opere pubbliche grandi, piccole o medie, ristrutturazioni e conversioni urbanistiche con le uniche risorse pubbliche significa condannarsi all’impotenza. Per investimenti di genere strutturale ed infrastrutturale, ma anche per investimenti in servizi a maggior connotazione immateriale, risorse a carattere privato e provenienti dal terzo settore sono divenute indispensabili. Da tal evidente necessità scaturisce un nuovo stile di governo: non si possono, però, chiedere risorse altrui senza coinvolgere da subito, appunto, i soggetti terzi potenziali fornitori degli investimenti, in altre parole soggetti privati di vario genere, associazioni ed organizzazioni no profit; soggetti, in ultima analisi, chiamati a dare il loro contributo sin dalla fase di partenza progettuale, naturalmente in una logica bottom-up. Da ciò, in breve, prendono abbrivio i processi di governance, ormai strumenti fondamentali nelle mani delle amministrazioni locali più avvedute e consapevoli. Come sintetizza Cassese, la governance non insiste su strutture, istituzioni od organizzazioni precise, ma su processi, regole, comportamenti, tratti funzionali. La governance, dunque, contempla una pluralità d’elementi quali cooperazione, decentramento, condivisione e socializzazione delle scelte, concertazione ed autonomia allo scopo di raggiungere determinati obiettivi, dati dalla politica, perseguiti dall’amministrazione e sostenuti per utile particolare e generale da soggetti appartenenti alla più disparata società civile.
Per quanto riguarda la gestione dei processi di governance non è secondaria una puntualizzazione. Infatti, in tali processi , perlomeno nella loro variante predominante, ovvero tecnocratica, si propone una valorizzazione del ruolo del settore privato e della società civile, intesa in un’accezione “aggregativa -pluralista”. Nel modello che osiamo definire “integrativo-collettivo”, si dà, invece, maggior spazio a processi di collective governance. Tale modello favorisce un’interpretazione della governance nettamente più disposta a meccanismi deliberativi. Questi, semplificando, si dividono in due tipi: “freddi” e “caldi”. I primi tendono a privilegiare una dinamica deliberativa orientata a produrre o compattare opinioni generali, i secondi sono in particolar modo vincolati al raggiungimento di una decisione finale. Le amministrazioni locali italiane non sono ancora pienamente entrate nello spirito della governance, registrando un clamoroso ritardo rispetto ad altri paesi europei come, ad esempio, la Germania, che da tempo nei suoi land è solita usare queste opzioni amministrative, divenute, tra l’altro, indispensabili allo sviluppo territoriale nell’intero continente. Sostenere la governance significa incitare l’emersione di quella civitas che rappresenta il cuore e l’energia motrice dello sviluppo in chiave contemporanea. Una spinta propulsiva che la politica d’inizio secolo non riesce a reperire, ma che può stimolare nelle forze a sé circostanti.

Infine, una proposta. Il PD ha saputo innescare un complesso processo d’autoriforma della politica a partire dai partiti. Fattori che rendono assai più credibili le autoriforme sono gli indici d’autovalutazione. Questi non sono nemmeno pensabili per quanto concerne i connessi universi della politica, specie intesa come politics, ma sono francamente auspicabili in relazione ai programmi e ai loro impatti reali, insomma, ad ogni momento dell’azione delle policies. Potrebbe essere in un certo qual modo di utile avanguardia proporre indici di valutazione del benessere sociale locale (indici che già esistono, nonostante non siano usati) ed indici relativi alle vere e proprie policies avanzate dal partito. In merito agli ultimi, forse, tre indici su tutti fanno al caso nostro: VIVIBILITA’, COMPETITIVITA’, SOSTENIBILITA’. E’ scontato terminare che su quanto detto servirebbe un ampio approfondimento.

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